Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Quegli animali imbalsamati finiti in salotto
Il fotografo: «Così le famiglie affrontano il lutto»
Il cane nel salotto di una casa a Spinea, il pappagallo in cucina a Padova: sempre più veneti fanno imbalsamare i loro animali domestici.
VENEZIA «Ancora oggi ci sono notti in cui Diletta, la più piccola delle mie due figlie, si sveglia piangendo, e l’unico modo per calmarla è darle la Monci da accarezzare» dice Chiara.
Siamo a Spinea, nel Veneziano. Chiara, suo marito e le loro bambine, posano di fronte all’obiettivo di Luca Rotondo, artista milanese che insegna fotografia del paesaggio all’Istituto Europeo di Design e ha vinto il prestigioso premio Ponchielli. Ciascuno di loro abbraccia un cane e, in primo piano, c’è la piccola che coccola la sua Monci, una bestiola di razza maltipoo. Lo scatto è perfetto, potrebbe essere il ritratto della famiglia Mulino Bianco se non fosse per un dettaglio quasi impossibile da decifrare: uno dei protagonisti di quella foto, in realtà, è morto da un pezzo.
«Monci finì schiacciata da un’auto per errore», spiega Rotondo. «L’incidente è stato uno choc per la famiglia, e Chiara si è subito rivolta ad Alberto: nessuno di loro se la sentiva di perdere per sempre quell’animale domestico».
Alberto è Alberto Michelon che nel suo studio di Padova svolge l’antico mestiere del tassidermista, termine un po’ ampolloso per definire l’imbalsamatore. «Si rivolge a me chi non riesce a superare il dolore per la perdita del proprio amico a quattro zampe e ritiene inaccettabile il non poterlo più accarezzare » , spiega l’artigiano che da sabato, a palazzo Zaguri di Venezia, esporrà alcune delle sue «opere» nell’ambito della mostra «Human Virus».
Occorre circa un mese di lavoro per creare una sagoma con le fattezze della bestiola e «vestirla» della pelle originale. «È molto complicato, il cliente si aspetta di rivedere l’animale col quale ha condiviso molti anni: immobile, cer to, ma con la s tes sa espressione, le medesime dimensioni e quelle caratteristiche che lo rendevano unico. Per questo, per prima cosa, studio le foto e i filmati che lo mostrano quand’era ancora in vita...».
La famiglia veneziana è soddisfatta del risultato ottenuto da Michelon. «Continuare ad avere la Monci come presenza fisica - spiega Chiara - ha accompagnato me e le mie figlie nel processo di elaborazione del lutto».
Da oltre un anno, Rotondo gira l’Italia per immortalare i clienti dei tassidermisti. «I miei sono ritratti di famiglia - spiega il fotografo - che però alzano il velo su un modo completamente diverso di affrontare la scomparsa di un componente del nucleo. C’è chi sceglie l’imbalsamazione come ultimo gesto d’amore, chi per una sorta di feticismo e chi perché sente di non avere il coraggio di rinunciare alla presenza di un animale domestico che, almeno per alcuni, è come un figlio».
Michelon conferma. E aggiunge un aneddoto: «Anni fa venni avvicinato da un padovano malato di sclerosi multipla. Voleva sapere se, quando fosse giunto il suo momento, sarebbe stato possibile imbalsamarlo. Almeno da morto, desiderava rimanere eternamente in piedi, con il fisico di una persona sana. Ovviamente gli risposi che non era legale...».
Molte delle fotografie di Rotondo sono state scattate in Veneto. Daniele, anche lui di Padova, è da dieci anni il presidente di Apae, l’associazione che riunisce un centinaio di appassionati di rettili e anfibi. Per lui, conservare lo scheletro dell’iguana Cucci «era un modo per onorarla e per averla ancora vicino».
Elisabetta, di Mestre, ha fatto imbalsamare il pappagallo Zeus. «Averlo fatto, rappresenta una forma di rinascita. Io e lui eravamo inseparabili. Lo portavo in vacanza, quando uscivo di casa mi stava su una spalla». Elisabetta ha sempre avuto paura della morte improvvisa e della separazione. «Ho una pessima memoria - racconta - per questo tengo tutto. Quando è morta mia mamma le ho tagliato una ciocca di capelli e ogni tanto la tengo la dita. Gli oggetti mi aiutano a non dimenticare».
Seduto sul divano di casa, nel Veronese, Luca si fa fotografare mentre la sua gattina
Petra sembra dormire sul tavolo del soggiorno: «La guardo con affetto e ogni volta mi commuovo. Non bisogna avere paura della morte, una volta che è accaduta non c’è più nulla da fare, o piangi tutta la vita o tieni vicini i ricordi. In camera ho un quadro con le ceneri di mia zia e non ho timore di usare le cose appartenute ai miei genitori».
Sui Colli Euganei, Claudio ancora non si dà pace per la morte del suo gatto Tito, ucciso da un attacco parassitario: «Gli ho lasciato troppa libertà, non avrei dovuto permettergli di starsene in giro nel fango. E avrei dovuto portarlo prima dal veterinario: quando l’ho fatto era già troppo tardi...». Farlo imbalsamare è stato il suo modo per averlo ancora vicino e, forse, per lenire i sensi di colpa.
Ciascuno ha la sua storia. «La morte di Paolino mi ha distrutto, mi ha fatto cadere davvero molto in basso. Da quel giorno sono cambiato parecchio, per me è stato come perdere un familiare», conclude il padovano Livio, che tiene il suo pappagallino in una zuccheriera di vetro.
Forse bastano le sue parole per provare a spiegare quest’idea un po’ folle di tenersi in soggiorno i resti di una bestiola morta: «Prima di avere con me Paolino, non avrei mai creduto possibile che tra uomo e animale si potesse sviluppare un legame così forte» .