Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

Da argine sanitario alla paura a indumento intimo «La mascherina? La lavo quando comincia a odorare» La nuova «convivenza» tra obblighi e raccomanda­zioni

- Di Emilio Randon

VICENZA Il bianco ingrassa, le strisce allargano, il nero slancia. «E poi è più comodo e sporca meno». L’attuale collezione autunno-inverno preferisce la mascherina di colore scuro e il virus non fa obiezioni, nera, bianca o a pois tanto ti ammazza lo stesso. Va detto anche che la signora è tutt’altro che frivola, è una donna di casa e, come tutte le donne di casa, pratica, quindi «meglio nera». Al tavolo del bar, davanti ad un cappuccino se l’abbassa e risponde, lo fa alla maniera dei cavalieri medievali con la celata, un segno di riconoscim­ento cortese che la tradizione militare ha trasmesso al cappello e che ora fanno anche le donne con la mascherina.

La signora spiega che lei la lava una volta ogni due giorni. «Quando me lo ricordo però. In realtà vado a naso, allorché comincia a puzzare la butto in lavatrice. Ci sarebbe anche un metodo per igienizzar­la, ma è macchinoso e richiede tempo: la sera andrebbe stesa su una bacinella di liquido disinfetta­nte, fumigata e poi lasciata asciugare al sole».

Lasciata al sole, a naso, alla capacità delle nostre tasche (son pur sempre 0,50 euro al pezzo), in balia delle nostre abitudini igieniche, gli schizzinos­i più spesso, altri meno. Ecco, l’indumento intimo oggi più in voga, il più usato (e riusato), di tutti gli orifizi corporei quello destinato a coprire la parte che ci è più cara, è anche quello al quale prestiamo meno attenzione. Non è uno yogurt, non è una mutanda, non ha scadenza scritta né bugiardino da leggere, il presidio medico con

"La sarta «Ne producevo quaranta al giorno, solo di cotone purissimo: il parroco le ha fatte analizzare e sono di qualità superiore»

sigliato dai medici è vago e interpreta­bile come l’oracolo di Delfi.

L’invito del rieletto governator­e Luca Zaia ad indossarlo sempre, anche all’aperto (in altre regioni e città è riscattato l’obbligo) , arriva delicato e liberale, adattabile alle nostre personali sensibilit­à, in strada la mascherina è consigliat­a ma non prescritta, raccomanda­ta ma non obbligata. L’intimo resta personale e, fintanto che dura, siamo liberi di aprire il cassetto e metterci quello che vogliamo, come di cambiarlo. C’è della castità nelle mascherine e c’è dell’esibizioni­smo, c’è anche del fetish, copre la paura e l’attizza, difende dal contagio e ne diffonde la notizia. Ecco perché va iscritta a pieno titolo nella categoria dell’abbigliame­nto intimo, sottospeci­e del “lo mostro”. Liberi di levarcela, tenuti a mostrarla secondo i luoghi e le situazioni, di cambiarla quando puzza o di odorarcela, di farne a meno nelle riunioni di famiglia come di imporla e cacciare dal tram chi non ce l’ha. Ci ha reso dimentichi e responsabi­li. A seconda, perché la mascherina non è una solo una legge, è una convenzion­e sociale.

Per dire che ci sono luoghi e luoghi, posti in cui le strade del consentito e dell’obbligator­io non si incontrano per disegnare una mappa comportame­ntale che solo noi conosciamo e dove il legislator­e non arriva. E la regola dell’intimo, figurarsi chi può dirci quando cambiarci di mascherina.

Mamma con tre figli: «Per i miei bambini una al giorno, sono quelle chirurgich­e in

alla scuola che ci danno in confezione di cinque una volta alla settimana.

Io e mio marito invece andiamo di stoffa». Mutatis mutande, mutatis mascherine. Quella chirurgica te lo dice, vivendo come una falena, al secondo giorno della sua obsolescen­za spezza il filo rigido che la sostiene e ti scende sul naso.

Nonostante costo e deperibili­tà, la chirurgica sta prendendo piede, l’indossa la maggioranz­a. La «home made» degli inizi, quella che si divertiva ai tempi dell’«andrà tutto bene», ora che «va tutto mediamente male» è in declino, resistono quelle griffate con i colori della bandiera italiana in uso dei politici che però sono dedicate e non hanno niente di domestico.

Angelina Marini di Tavernelle, sarta di profession­e di 80 anni, ne ha prodotte 40 al giorno negli ultimi sei mesi. Agratis. Il parroco veniva a prendersel­e e le distribuiv­a tra i fedeli. «Solo cotone purissimo, il prete le ha fatte analizzare e sono di qualità superiore». Nessuna meglio di lei conosce il trend. «Da quaranta al giorno sono scesa a venti. Forse vanno di moda le chirurgich­e».

«In effetti anch’io ho mollato la fatta in casa per la chirurgica, più pratica e più

igienica. Mi sono detto: perché metterla la mattina per mangiare la sera la mia stessa coltura di germi concentrat­a e a dosi aumentate. Viva l’industrial­e», conclude un signore.

Avanza l’intimo per la bocca e il rifiuto solido urbano che comporta, sempre più spesso nei cestini, gettato per terra o incollato ai muretti. La Aim di Vicenza il problema se l’era posto all’inizio del lockdown: «Su una popolazion­e media di centomila persone avevamo calcolato un rifiuto della metà, 50 mila mascherine al giorno che andavano nel secco – racconta un dirigente della nettezza urbana berica – poi abbiamo lasciato perdere perché nella logica dei quintali il loro peso era irrilevant­e. Per quelle che vanno a otturare le cavatoie è un altro discorso e lo vedremo più avanti».

Pantegane bisognereb­be essere per capire cosa c’è adesso nei cassonetti dell’immondizia, frugare nel secco e nell’umido sapendo che i rifiuti di una civiltà sono quelli che la definiscon­o. Troveremmo pannolini, plastica alimentare tassata, mozziconi di sigarette, tutti i segreti delle nostre vite. Ora anche le mascherine, ancora in attesa di interpreta­zione.

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