Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
Sassolino, lo scienziato delle installazioni
Vicentino, classe ‘67, Arcangelo Sassolino per le sue opere gioca con le leggi della fisica
Come definire i lavori di Arcangelo Sassolino? Prendete l’opera che accoglie i visitatori a Palazzo Maffei, la casa-museo veronese aperta e allestita da Luigi Carlon con la propria collezione: Qualcosa è cambiato (2019) è un abbraccio di acciaio a lastre di vetro. Sassolino ci ha abituato a messe in scena con bottiglie di vetro fatte esplodere ( D.P.D.U.F.A, 2016) e installazioni meccaniche che piegano una trave di legno ( Canto V, 2016). Qualsiasi cosa siano, lui preferisce chiamarsi «scultore». Non a caso, tra i tanti rimandi colti dentro la storia dell’arte, nomina sempre una qualche statua lignea medievale, «un oggetto che ti viene addosso ogni volta che lo osservi». Arcangelo Sassolino è vicentino, nato nel 1967, cresciuto a Trissino dove vive e lavora. È uno dei più riconosciuti artisti italiani: «Sono autodidatta – racconta - Mi sono iscritto a ingegneria, non ho mai dato un esame. Ho ideato un gioco tridimensionale: a vent’anni sono andato negli Stati Uniti per cercare un compratore e a New York sono riuscito a fare uno stage non retribuito alla Casio. Il prototipo non è mai stato realizzato ma sono rimasto cinque anni a progettare giocattoli. Poi è arrivato l’incontro con l’arte».
Questa sua formazione eccentrica l’ha aiutata o ha reso le cose più difficili?
«Continuano a guardarmi storto (sorride, ndr). Eppure, mi ha dato l’energia per esplorare, senza quelle aspettative che di solito pesano su un artista. Ho dovuto arrangiarmi, scoprire un territorio mio, originale».
Così ha scoperto le leggi della fisica come uno spartito poetico.
«Sono convinto che, applicando alla materia fenomeni naturali che chiamiamo “fisica”, dunque calore, attrito, pressione, velocità, tutto questo possa dare nuova vita alla scultura. Così si scopre che un pezzo di legno vibra e un volume di acciaio inerme può cantare. Voglio scuotere la materia».
E inquietare chi guarda? «Preferisco mettere in una posizione scomoda chi osserva. D’altra parte, non mostro un marmo o un legno finito, cesellato, ordinato, al contrario vado a ritroso nel processo per mostrare quel che succede prima. Mi hanno definito uno “scultore muscolare” e la cosa mi fa arrabbiare». Perché?
«Perché queste performance inorganiche attorno alla materia non sono gesti brutali, ma svelamenti. Mi piace portare la materia al limite, tenerla in tensione prima che si sfasci, giusto prima del fallimento: quella tensione mi fa sentire vivo e so che anche chi osserva si sente vivo. Perché alla fine provo a indagare la caducità della vita umana, la fragilità dell’esistenza, la nostra esposizione al fallimento».
Il suo studio sembra una bottega rinascimentale: artigiani, fisici, ingegneri, carpentieri.
«Il mio studio è un capannone a Trissino. Là esperimento e creo con cinque diversi professionisti. A volte proviamo cose impossibili da fare, altre volte realizziamo cose che sembrano impossibili. Tuttavia, non sono attratto dall’estetica della tecnologia, non faccio collage estetici: per me la tecnologia è sempre funzionale. Mi permette di entrare in territori sconosciuti, dove tutte le definizioni diventano ibride».
E quanto la condiziona il contesto veneto?
«Tantissimo. Ho imparato tanto dagli artigiani e sono loro che mi trovano soluzioni, materiali e macchine. Appartengo visceralmente al Veneto e ne sfrutto il potenziale. D’altra parte, basta guardarsi attorno: capannoni, scavatrici, pistoni a olio, piloni, l’urbanistica sgangherata impiastrata di asfalto. Quel paesaggio sono l’immaginario e il reale di questo luogo».
Che progetti ha ora in cantiere?
«Sto lavorando su alcune collaborazioni importanti per la Biennale Architettura di Venezia, per Arte Sella, per la Biennale di Vancouver. Vorrei misurarmi con nuovi materiali, la polvere da sparo ad esempio. E poi la velocità, forse perché è la nevrosi dei nostri tempi. Parlo di velocità, ma più che ai futuristi penso soprattutto a certi fermi-immagine del Bernini. Ecco su quella dimensione vorrei lavorare».