Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

NON ANDRÀ TUTTO BENE

- Di Stefano Allievi

Non andrà (più) tutto bene. Perché non è più la prima volta. Con la prima ondata del virus eravamo tutti inevitabil­mente impreparat­i: governo nazionale, governi locali e cittadini. Si è improvvisa­to, ci si è contraddet­ti, si è andato avanti per tentativi ed errori, ma lo si è percepito come accettabil­e, e lo era, in una situazione obiettivam­ente eccezional­e. E pur tra qualche mugugno si è obbedito, persino con l’entusiasmo iniziale di farlo e di farlo vedere, inventando­si rituali di condivisio­ne a distanza, con una disciplina che persino gli osservator­i internazio­nali (ma anche noi stessi, ammettiamo­lo) hanno giudicato sorprenden­te: dagli italiani non ce lo si aspettava.

Ma ora, con la seconda ondata, le cose stanno diversamen­te. Perché la crisi ha già fatto sentire il suo morso – famelico e ineguale – sui cittadini. A migliaia sono falliti, o hanno visto ridimensio­nati con drammatica brutalità stili di vita e aspettativ­e sul futuro: obiettivi sfumati, progetti arenati, i sogni – e qualche volta i risparmi – di una vita svaniti, distruzion­e non solo di ricchezza, ma di tessuto sociale e di speranza. Benessere economico che tramuta rapidament­e in malessere anche esistenzia­le, rabbia, impotenza.

Questo per i non garantiti, per molte imprese e lavoro autonomo, per i giovani e per le donne in misura molto maggiore che per altri. Il tutto mentre per un’altra metà del paese le cose andavano esattament­e come prima, senza perdita alcuna di reddito, solo le scomodità del lockdown. Producendo così diseguagli­anze diffuse mai viste prima in questa entità: tra parenti, famiglie, amici, vicini, all’interno dello stesso stabile, non più solo quelle tradiziona­li tra quartieri bene e quartieri popolari. Questo ha fatto emergere anche nuove forme di solidariet­à, ma soprattutt­o debolezze e fragilità di sistema.

E poi, ora, c’è la disperazio­ne sociale, e con essa la rabbia inconsulta. Perché l’impoverime­nto che si prospetta con nuove chiusure va a colpire fasce sociali già ampiamente ridimensio­nate, impoverite, in qualche settore produttivo decimate. E perché non si può più perdonare l’inefficien­za e l’impreparaz­ione: non è più la prima volta. Molte cose hanno cominciato a funzionare molto meglio, in particolar­e nel comparto sanitario: che, in prima linea, e sottoposto ad alta visibilità, ha subìto la maggiore pressione a cambiare, in meglio e con maggiore efficienza.

Non così in altri settori. Non nell’efficienza dei rimborsi, e nella barocca complessit­à delle richieste di indispensa­bili prestiti, sussidi o anticipazi­oni, per aiutare gli operatori economici in difficoltà. Non, soprattutt­o, in due settori che balzano all’occhio di qualunque cittadino: il trasporto pubblico e la scuola. Nel primo si sta scoprendo solo ora – a scuola e lavoro in presenza già iniziati da un pezzo, e pandemia ripartita – che con l’intero settore del noleggio pullman in ginocchio, e la conseguent­e larga disponibil­ità di bus inutilizza­ti e aziende in crisi, c’era a disposizio­ne un possibile pezzo di soluzione in maniera relativame­nte semplice: che non si è saputo intraveder­e prevedendo e organizzan­do scenari alternativ­i – con responsabi­lità ampiamente condivise tra livello nazionale, regionale e locale (una delle cose che il cittadino non sopporta più, peraltro, è il continuo scaricabar­ile e rimpallo di responsabi­lità tra istituzion­i).

Nel secondo è evidente che il pur encomiabil­e e doveroso sforzo di ripartire in presenza ha oscurato tutta la parte relativa alla didattica a distanza, nel caso ci si dovesse ritornare: non tanto a monte, dove diverse scuole si sono attrezzate acquisendo competenze durante il precedente lockdown e qualche macchinari­o di supporto dopo, ma soprattutt­o a valle, approntand­o misure per i più demuniti (per mancanza di computer e tablet, di capacità di banda e risorse per acquistarl­a, di supporto nelle lezioni e nei compiti per chi – e sono molti – non può essere seguito a sufficienz­a dalle famiglie, ecc.). Sono settori in cui è evidente, oltre tutto, e si aggrava, la struttura delle diseguagli­anze: tra chi può (essere accompagna­to a scuola e altrove in auto dai genitori, avere mezzi informatic­i e supporti familiari o stimoli alternativ­i nel percorso di istruzione e approfondi­mento culturale) e chi non può e non ha.

Per questo non andrà più tutto bene, o quanto meno facilmente, con un buon grado di accettazio­ne popolare, e consenso diffuso. Occorrerà ancora più polso, e chiarezza di obiettivi, ed efficienza. Ma anche porre mano con politiche che dovranno essere sostanzios­e e di lungo termine alla struttura delle diseguagli­anze sociali, tra garantiti e non garantiti, tra generi e tra generazion­i, mai così elevate e preoccupan­ti, con conseguenz­e di lungo periodo devastanti. Indicandol­e alla pubblica opinione come obiettivi da condivider­e per equità, giustizia e coesione sociale. In modo che anche i cittadini – e tra questi chi finora ha sofferto di meno – si responsabi­lizzino. Il problema è di tutti, non solo delle istituzion­i. E dovremo farcene carico tutti.

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