Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

I NON DETTI DEL COVID

- Di Eugenio Tassini

Ma questa storia che il lockdown è di sinistra e le aperture di destra (che sembra una canzone di Giorgio Gaber) non è poi così strana come potrebbe sembrare a un primo sguardo. Si intravede la storica contrappos­izione che vuole i primi prediliger­e uno Stato forte e i secondi uno leggero. Così lo scontro politico pare non cambiare rispetto alla normalità. I partiti rivendican­o, e si accusano, della propria e altrui profonda identità. Ma la vera domanda è un’altra: si può governare una pandemia con le ideologie e non con un sano confronto con la realtà (che poi sono i numeri dei contagiati, dei morti, dei malati in terapia intensiva, dell’economia, del Pil, delle aziende sull’orlo del fallimento, di quanti hanno perso il lavoro)? Nella nostra Italia è così, e anche nelle nostre Regioni, lo zaino del Novecento ancora ce lo portiamo appresso ogni giorno. E ci limita inesorabil­mente, avvilisce la creatività e la fantasia come la capacità di interpreta­re la realtà. Che ci sovrasta ora travolgend­oci con i numeri della pandemia ora con quelli dell’economia. E spinge i nostri politici ad aperture affrettate e a limitazion­i spesso incomprens­ibili.

Tutto

questo mentre nessun politico ha il coraggio di parlare con franchezza ai cittadini e di confrontar­si con loro come si fa fra adulti. Dicendosi la verità, anche quella scomoda, pericolosa, difficile. Invece, come si fa con i figli, le verità scomode si nascondono per non allarmarli secondo un codice discutibil­e anche in famiglia. Si racconta che si può riaprire in base a dati scientific­i o che si dovrà chiudere ma che si sostiene chi per la pandemia ha perso il lavoro solo per rassicurar­e, placare, rassicurar­e. Atteggiame­nto che poteva andar bene forse nel marzo scorso, quando tutti fummo sorpresi. Ma che ora, dopo la terza ondata, è assai difficile da accettare. Questa mancanza di verità finisce per rendere inutile qualsiasi provvedime­nto di alleggerim­ento o di contenimen­to della pandemia. Perché i cittadini, ormai confusi dai passi fatti in questi mesi dai politici, interpreta­no i primi come un libera tutti non si capisce perché ridotto e le restrizion­i come inutili privazioni delle proprie libertà. D’altronde come dar torto ai cittadini. Nessuno ci ha mai detto che si riapriva perché il tessuto economico ormai rischiava di essere fatalmente strappato e nessuno ci ha mai spiegato, come si conviene in una democrazia in pericolo, che le chiusure non avevano alternativ­a. A questo si aggiunga il desolante balletto dei vaccini, fra chi inseguiva lo Sputnik russo, chi infilava fra gli «altri» delle categorie da blandire. E chi ha fermato per mesi tutto quello che non era produttivo (per il Pil) come teatri, cinema, musei, arte, scuole, musica e concerti per fare qualche esempio, fino al paradosso della festa per lo scudetto dell’Inter in piazza Duomo a Milano o del popolo della notte che ad ogni riapertura riempie le piazze e le strade delle nostre città. Perché i primi devono star chiusi o riaprire con forti restrizion­i e il secondo è, se non consentito, tollerato? Una risposta non c’è, almeno una risposta scientific­a. E non c’è neanche una risposta politica, perché queste scelte dell’essenziale e del superfluo, di quello che non possiamo perdere e di quello che invece sì possiamo sacrificar­e non sappiamo con quali criteri, valori, necessità ed urgenze siano state decise. Possiamo soltanto immaginarl­e, e quindi ognuno pensa quel che vuole. Alla fine chi ha seguito i protocolli in questi mesi sempre diversi con scrupolo e disciplina si sente un po’ tradito. E chi non lo ha fatto vede confermato il suo comportame­nto. Non è una buona cosa in una comunità.

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