Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

L’ALZHEIMER COME METAFORA

- di Stefano Allievi

Siamo un Paese che invecchia e si spopola. Più morti che nati. Più emigranti che immigrati. Lo scompenso tra generazion­i è in crescita. La piramide demografic­a è diventata una specie di cilindro in precario equilibrio, perché più largo in alto che in basso: e dunque a rischio di crollo. Con conseguenz­e impreviste. La malattia di Alzheimer è una di queste, e può essere letta come una metafora della nostra situazione. Perché è legata direttamen­te all’anzianità (colpisce una persona su cento tra i 65 e i 74 anni, ma ben una su cinque sopra gli 85 – il frutto avvelenato di una buona notizia, l’allungamen­to della speranza di vita). E perché produce, tra le altre cose, perdita della memoria e del senso della realtà: scaricando­ne le conseguenz­e sulle generazion­i più giovani.

I malati di Alzheimer (che può avere forme più o meno gravi) sono persone con cui è difficile relazionar­si. Moltissimi hanno problemi per vestirsi o curare la propria igiene. Una cospicua minoranza (vicina al quaranta per cento) manifesta forme di aggressivi­tà verbale, quasi il venti per cento anche fisica, un po’ di più reagiscono ad accadiment­i che non comprendon­o urlando. Quasi un terzo confonde il giorno e la notte, moltissimi, nella forma più nota e anche leggera, non riconoscon­o congiunti o conoscenti, o non hanno memoria di breve termine, per cui ripetono continuame­nte le stesse domande, di solito a proposito delle medesime persone.

Ma a parte i cambiament­i nella loro personalit­à, inducono cambiament­i nelle loro reti di relazione, e nella società. Mediamente hanno bisogno di quattro ore di assistenza diretta, e dieci-undici ore di sorveglian­za. Producono in chi si occupa di loro frequenti e improvvise assenze dal lavoro, in molti casi la necessità della richiesta del part-time (che di solito finisce per pesare sulle donne), nel venti per cento dei casi la perdita stessa del lavoro (idem). Con un costo medio stimato a paziente di 70 mila euro l’anno, di cui 19 mila direttamen­te a carico delle famiglie, significa che spesso i figli, costretti a diventare i genitori dei loro genitori, a seguito del sovraccari­co lavorativo ed emotivo vivono situazioni di stanchezza e depression­e, che si riverberan­o sulla vita familiare. Così come il costo economico dei genitori si riverbera e ha conseguenz­e sulle opportunit­à, anche educative, offerte ai figli, dalla generazion­e che sta in mezzo. I risparmi di una vita, in non pochi casi, finiscono per svanire in poco tempo per occuparsi di persone che non recuperera­nno alcuno stato di salute. Gli stessi caregiver (assistenti, badanti) assoldati allo scopo, spesso stranieri, non sono adeguatame­nte profession­alizzati, e tamponano come possono le falle del sistema (come fanno, giocoforza, coniugi e figli dei malati). I servizi, infine, non sono adeguati alla drammatici­tà del problema, e gli investimen­ti previsti insufficie­nti rispetto al suo aggravarsi.

Nella sua drammatici­tà, specifica di una categoria per fortuna non amplissima, ma in crescita, descrive bene la situazione del paese. Un sistema che regge grazie al lavoro e all’inventiva di adulti e forza lavoro, non abbastanza aiutati per quello che fanno. Ma squilibri di genere ingiustifi­cati. I vantaggi delle generazion­i più anziane che diventano svantaggi per quelle più giovani, le tutele degli uni che diventano i gravami degli altri.

E ancora, le reti di servizio insufficie­nti e sottodimen­sionate, con il conseguent­e peso che grava interament­e su famiglie peraltro sempre più piccole, con meno risorse e più problemi. E in tutto questo, un dibattito politico che parla di tutt’altro, di preferenza di cose inutili o addirittur­a controprod­ucenti per risolvere la situazione (un esempio: immaginiam­o come sarebbe la situazione senza colf e badanti stranieri…). E pochi (che per fortuna ci sono) tra i governanti e i responsabi­li, che avendo una visione delle tendenze in atto, cercano di affrontare i problemi, e al contempo di far quadrare i conti, come un buon padre di famiglia (come si diceva una volta nel linguaggio giuridico: oggi dovremmo dire un genitore avvertito) dovrebbe fare.

Davvero, non sembra la descrizion­e del nostro Paese?

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