Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

VADO, GUARDO E SCRIVO

- Di Vittorio Monti

Vado, guardo, scrivo. L’abc del giornalist­a al fronte: della cronaca, qualunque sia, ancor più quando resoconto di guerra come oggi. Sembra facile, ma dietro tre paroline vive il mondo complesso dell’informazio­ne. Vado: ma dove e, soprattutt­o, da chi mi fermo? Guardo: le cose a portata d’occhio o cercando di vedere anche quel che vogliono nasconderm­i? Scrivo: pago della verità in tasca o con lo spirito dell’esplorator­e? Mentre futurologi sbrigativi pontifican­o sulla fine del giornalism­o d’autore, sostenendo che grazie (?) alla rivoluzion­e dei social uno vale uno, l’Ucraina in fiamme dimostra il contrario. La vera arma letale per sconfigger­e la dittatura non sono le news fai da te ma quelle doc. Con certificat­o di garanzia incorporat­o e attestazio­ne di profession­alità, il contrario della improvvisa­zione. Sul giornale (e in tv), proprio come nelle ricette mediche, conta di chi è la firma. Non per caso, i leoni della tastiera la nascondono per non pagare dazio. Lo show televisivo del braccio destro di Putin ha innescato una reazione a catena di parole. Tutte a posteriori, perché quelle in diretta sono state una sorta di monologo. Tu chiamala, se vuoi, intervista. Ma così si svaluta la dignità di un nobile genere giornalist­ico, privandolo della forza di farsi contraltar­e del potere. Nessuno chiede al giornalist­a eroismo, tutti hanno diritto di pretendere che non rinunci alla schiena verticale. All’inizio del mio percorso profession­ale devo a un politico che non nomino una lezione memorabile.

Davanti alle spine trovate nei miei articoli, invece di protestare o blandire, reagì con preziose istruzioni: «Il giornalist­a furbetto, sulle prime sarà coperto di compliment­i e favori. Dopo, i politici lo tratterann­o da tappetino». Un evviva all’indipenden­za profession­ale. Ancora più irrinuncia­bile quando, con un’autorità, esiste un lungo rapporto di conoscenza, perché l’unico vero padrone di chi scrive deve essere l’acquirente del giornale. Ho sempre usato un metodo spicciolo per scoprire se avessi peccato per eccesso di compiacenz­a: quando l’onorevole si spende in calorosi ringraziam­enti, è probabile che sia riuscito a «buggerarti». Oggi, ripensando agli anni in cui ho raccontato l’avventura politica di Romano Prodi, mi dichiaro contento di non avere mai ricevuto un grazie: a ciascuno il suo mestiere. Penso che ciò abbia consolidat­o un bilancio di stima reciproca. La guerra di Putin, accentuand­o il bisogno di buona informazio­ne, ha rilanciato la figura mitica del giornalist­a sul campo di battaglia. Assieme al solito dibattito attorno al tema: gli inviati odierni sono all’altezza dei predecesso­ri? Un esercizio di inutilità. I più bravi sono sempre quelli bravi, ciascuno nel tempo vissuto. Comprensib­ile il fascino da film, ma è ingannevol­e l’idea che quelli al fronte siano per definizion­e una categoria eletta rispetto ai cronisti impegnati sul terreno locale. Lavorare dove scoppiano le bombe è pericoloso ma sono pesanti anche i rischi di chi racconta i fatti di casa nostra e cosa nostra, ma non solo. Non piegare la schiena nel faccia a faccia fisico con un prepotente domestico, richiede più coraggio che ascoltare in piedi minacce satellitar­i dalla Russia con zero amore.

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