Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
«Medici ridotti a impiegati statali Per salvare gli ospedali pubblici stop al numero chiuso e più soldi»
Gli anestesisti: «Urge una riforma con gli Atenei. E il contratto distingua tra ambiti»
VENEZIA Con lo sfumare del Covid sta svanendo l’idea romantica del medico eroe e si risolleva il velo sulle «magagne» del servizio pubblico. Fiaccato da un decennio di tagli a risorse, personale, reparti e letti inferti da governi di tutti i colori, dalla cronica carenza di camici bianchi, da retribuzioni inadeguate a competere con i compensi offerti dalle cooperative, che stanno sostituendo con il servizio «a cottimo» il miglior sistema universalistico riconosciuto al mondo. Cura tutti gratis.
Dottor Marco Baiocchi, lei è il presidente dell’Associazione dei direttori di Anestesia e Rianimazione del Veneto, gli specialisti più «rari», insieme ai medici dell’emergenza-urgenza. In che situazione lavorate?
«Difficile. Siamo stanchi e dimezzati da fughe continue nel privato e dai pre-pensionamenti, scelti anche dalle aziende sanitarie, nonostante tutto. Noi anestesisti siamo 700, ne mancano almeno 200 per ripristinare gli organici pre-Covid, comunque già tirati perché l’attività chirurgica è molto aumentata con la pratica mini-invasiva, che ha reso trattabili pazienti prima ino«Pagando perabili, come i grandi anziani. E poi ormai si chiede la sedazione anche per le risonanze, i parti, la Radiologia interventistica».
La soluzione qual è?
«Bisogna lavorare con l’Università per riequilibrare il saldo tra i professionisti che entrano negli ospedali pubblici e quelli che li abbandonano. Sono contrario al numero chiuso a Medicina, responsabile della carenza di medici insieme all’insufficienza di borse di studio per l’accesso alle Scuole di Specializzazione. Inoltre il contratto dovrebbe distinguere tra le diverse modalità di svolgere questo mestiere: gli anestesisti, come i colleghi del Pronto Soccorso, lavorano in urgenza dal primo all’ultimo giorno ed è pesante. Copriamo notti, guardie, emergenze, per una retribuzione inadeguata».
Non arrotondate con la libera professione?
«Per noi si traduce con la terapia antalgica, poca cosa».
C’è una crisi di vocazioni?
«Sì. La pandemia è un’esperienza forte dal punto di vista umano ed emozionale, uno sforzo immenso sul fronte pratico, fatto di carichi di lavoro enormi, di migliaia di pazienti gravi da trattare in tempi molto ristretti. E tutto ciò senza ottenere in cambio un riconoscimento economico per tutti. Una società che non valorizza l’importanza economica del nostro lavoro porta inevitabilmente la categoria ad accusare una stanchezza fisica e motivazionale. Nella quale si sono insinuate le cooperative».
Altro problema da risolvere. Come?
di più i medici del servizio pubblico e imponendo regole severe alle coop, che si sottraggono al controllo di qualità e alla valutazione del risultato obbligatori nel pubblico, giustamente. Sono indispensabili a garantire la sicurezza ai pazienti e agli stessi operatori. Le cooperative non hanno un interesse specifico e far andare bene un reparto o un decorso clinico, al centro di tutto c’è solo una prestazione d’opera. Però un libero professionista lì guadagna in 48 ore 2500 euro, cioè lo stipendio annuale di un neoassunto nel pubblico».
Sono solo i soldi il motivo della fuga dal pubblico?
«No, nelle cooperative il medico sceglie i giorni di lavoro, evitando per esempio, guardie, festivi, sabati e domeniche. Però non è tenuto a rispettare le ore di riposo previste nel sistema pubblico, può coprire anche tre o quattro notti di seguito, a scapito della lucidità e quindi della sicurezza sua e del malato».
Insomma urge una riforma del Servizio sanitario nazionale che equilibri assunzioni e dimissioni/pensionamenti, aggiorni gli stipendi e riconosca al medico il ruolo che gli compete?
«Esatto. Negli ultimi anni la figura del medico, in passato riferimento culturale e sociale, è stata svilita a quella di un impiegato sommerso dalla burocrazia e sfinito da carichi e turni inimmaginabili. Un appiattimento inaccettabile per chi salva delle vite. Ma chi glielo fa fare a un giovane di diventare medico a queste condizioni?».
E a lei chi gliela fa fare di restare nel pubblico?
«L’orgoglio di proseguire una tradizione di famiglia e di credere in un sistema che tutela gratis e con competenza la salute di tutti. Il corso di studi in Medicina è il più bello, in sei anni offre l’opportunità a un ragazzo, spesso indeciso sul proprio futuro, di capirsi meglio. Il Covid ha tolto un po’ di polvere, ma le magagne sono sotto gli occhi di tutti e bisogna intervenire se vogliamo salvare gli ospedali pubblici e il diritto universale alle cure».
"Marco Baiocchi Dopo due anni di Covid siamo stanchi e dimezzati C’è una crisi di vocazioni
● Il minor impatto dell’emergenza Covid sta risollevando il velo sulle «magagne» del servizio pubblico, fiaccato da un decennio di tagli a risorse, personale, reparti e letti inferti da governi di tutti i colori, dalla cronica carenza di camici bianchi, da retribuzioni inadeguate a competere con i compensi offerti dalle cooperative.
● Le coop stanno sostituendo con il servizio «a cottimo» il miglior sistema universalistico riconosciuto al mondo, perché cura tutti gratis.