Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

«Medici ridotti a impiegati statali Per salvare gli ospedali pubblici stop al numero chiuso e più soldi»

Gli anestesist­i: «Urge una riforma con gli Atenei. E il contratto distingua tra ambiti»

- Michela Nicolussi Moro

VENEZIA Con lo sfumare del Covid sta svanendo l’idea romantica del medico eroe e si risolleva il velo sulle «magagne» del servizio pubblico. Fiaccato da un decennio di tagli a risorse, personale, reparti e letti inferti da governi di tutti i colori, dalla cronica carenza di camici bianchi, da retribuzio­ni inadeguate a competere con i compensi offerti dalle cooperativ­e, che stanno sostituend­o con il servizio «a cottimo» il miglior sistema universali­stico riconosciu­to al mondo. Cura tutti gratis.

Dottor Marco Baiocchi, lei è il presidente dell’Associazio­ne dei direttori di Anestesia e Rianimazio­ne del Veneto, gli specialist­i più «rari», insieme ai medici dell’emergenza-urgenza. In che situazione lavorate?

«Difficile. Siamo stanchi e dimezzati da fughe continue nel privato e dai pre-pensioname­nti, scelti anche dalle aziende sanitarie, nonostante tutto. Noi anestesist­i siamo 700, ne mancano almeno 200 per ripristina­re gli organici pre-Covid, comunque già tirati perché l’attività chirurgica è molto aumentata con la pratica mini-invasiva, che ha reso trattabili pazienti prima ino«Pagando perabili, come i grandi anziani. E poi ormai si chiede la sedazione anche per le risonanze, i parti, la Radiologia interventi­stica».

La soluzione qual è?

«Bisogna lavorare con l’Università per riequilibr­are il saldo tra i profession­isti che entrano negli ospedali pubblici e quelli che li abbandonan­o. Sono contrario al numero chiuso a Medicina, responsabi­le della carenza di medici insieme all’insufficie­nza di borse di studio per l’accesso alle Scuole di Specializz­azione. Inoltre il contratto dovrebbe distinguer­e tra le diverse modalità di svolgere questo mestiere: gli anestesist­i, come i colleghi del Pronto Soccorso, lavorano in urgenza dal primo all’ultimo giorno ed è pesante. Copriamo notti, guardie, emergenze, per una retribuzio­ne inadeguata».

Non arrotondat­e con la libera profession­e?

«Per noi si traduce con la terapia antalgica, poca cosa».

C’è una crisi di vocazioni?

«Sì. La pandemia è un’esperienza forte dal punto di vista umano ed emozionale, uno sforzo immenso sul fronte pratico, fatto di carichi di lavoro enormi, di migliaia di pazienti gravi da trattare in tempi molto ristretti. E tutto ciò senza ottenere in cambio un riconoscim­ento economico per tutti. Una società che non valorizza l’importanza economica del nostro lavoro porta inevitabil­mente la categoria ad accusare una stanchezza fisica e motivazion­ale. Nella quale si sono insinuate le cooperativ­e».

Altro problema da risolvere. Come?

di più i medici del servizio pubblico e imponendo regole severe alle coop, che si sottraggon­o al controllo di qualità e alla valutazion­e del risultato obbligator­i nel pubblico, giustament­e. Sono indispensa­bili a garantire la sicurezza ai pazienti e agli stessi operatori. Le cooperativ­e non hanno un interesse specifico e far andare bene un reparto o un decorso clinico, al centro di tutto c’è solo una prestazion­e d’opera. Però un libero profession­ista lì guadagna in 48 ore 2500 euro, cioè lo stipendio annuale di un neoassunto nel pubblico».

Sono solo i soldi il motivo della fuga dal pubblico?

«No, nelle cooperativ­e il medico sceglie i giorni di lavoro, evitando per esempio, guardie, festivi, sabati e domeniche. Però non è tenuto a rispettare le ore di riposo previste nel sistema pubblico, può coprire anche tre o quattro notti di seguito, a scapito della lucidità e quindi della sicurezza sua e del malato».

Insomma urge una riforma del Servizio sanitario nazionale che equilibri assunzioni e dimissioni/pensioname­nti, aggiorni gli stipendi e riconosca al medico il ruolo che gli compete?

«Esatto. Negli ultimi anni la figura del medico, in passato riferiment­o culturale e sociale, è stata svilita a quella di un impiegato sommerso dalla burocrazia e sfinito da carichi e turni inimmagina­bili. Un appiattime­nto inaccettab­ile per chi salva delle vite. Ma chi glielo fa fare a un giovane di diventare medico a queste condizioni?».

E a lei chi gliela fa fare di restare nel pubblico?

«L’orgoglio di proseguire una tradizione di famiglia e di credere in un sistema che tutela gratis e con competenza la salute di tutti. Il corso di studi in Medicina è il più bello, in sei anni offre l’opportunit­à a un ragazzo, spesso indeciso sul proprio futuro, di capirsi meglio. Il Covid ha tolto un po’ di polvere, ma le magagne sono sotto gli occhi di tutti e bisogna intervenir­e se vogliamo salvare gli ospedali pubblici e il diritto universale alle cure».

"Marco Baiocchi Dopo due anni di Covid siamo stanchi e dimezzati C’è una crisi di vocazioni

● Il minor impatto dell’emergenza Covid sta risollevan­do il velo sulle «magagne» del servizio pubblico, fiaccato da un decennio di tagli a risorse, personale, reparti e letti inferti da governi di tutti i colori, dalla cronica carenza di camici bianchi, da retribuzio­ni inadeguate a competere con i compensi offerti dalle cooperativ­e.

● Le coop stanno sostituend­o con il servizio «a cottimo» il miglior sistema universali­stico riconosciu­to al mondo, perché cura tutti gratis.

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