Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

«Bracciale elettronic­o usiamolo di più Recupero dei violenti? Serve prudenza»

- Martina Zambon

Avvocato Giulia Bongiorno, questa è una settimana nerissima in Veneto, tre femminicid­i in pochi giorni. Nel caso di Vicenza l’omicida era finito già in carcere per gli abusi inflitti alla moglie. E c’era anche un divieto di avviciname­nto. Cosa si può fare di più, quali altri strumenti ci sono per prevenire questa mattanza?

«Decidere quale misura applicare richiede una valutazion­e molto attenta. Quando è evidente l’esistenza di un rischio reale e immediato per la vita altrui, e quindi un rischio di violenza, il divieto di avviciname­nto non basta: servono altre misure, adeguate e proporzion­ate al livello di rischio rilevato, come la custodia cautelare in carcere o gli arresti domiciliar­i. Con il Codice Rosso è stata introdotta la possibilit­à di applicare, unitamente alla misura cautelare del divieto di avviciname­nto ai luoghi frequentat­i dalla persona offesa, il cosiddetto braccialet­to elettronic­o».

Esiste un problema di organico delle forze dell’ordine nel seguire le denunce di donne abusate?

«Per le donne, uscire dal silenzio e sporgere denuncia è spesso molto difficile; se poi lo Stato non garantisce interventi immediati di tutela, di fatto le tradisce. Non sempre il personale che riceve le denunce è adeguato, in termini di numero ma anche, ahimè, di preparazio­ne: ecco perché, quando ho scritto le norme sul Codice Rosso, ho inserito anche una previsione – a cui bisogna assolutame­nte dare seguito – dedicata all’obbligo di formazione per Polizia di

Stato, Arma dei Carabinier­i e Polizia penitenzia­ria. Mi sembra doveroso sottolinea­re, tuttavia, che in molte occasioni l’intervento delle forze dell’ordine è stato decisivo. Serve quindi personale, e che sia capace di dedicarsi in maniera specialist­ica ai procedimen­ti di violenza domestica e di genere. Soltanto così può prendere forma una sequenza di azioni mirate: denuncia, comunicazi­one immediata della notizia di reato, ascolto tempestivo della vittima, svolgiment­o delle indagini senza ritardi, valutazion­e e disposizio­ne della misura di protezione adatta al caso concreto».

Come si garantisce, concretame­nte, alle vittime una reale protezione dal compagno violento?

«Innanzitut­to, ascoltando­la subito per comprender­e i fatti e valutando in maniera esaustiva i rischi cui si trova esposta: quando si tratta di violenza domestica, le denunce necessitan­o di un intervento attivo. Altrimenti l’uomo può continuare a minacciare e ad aggredire, senza ostacoli e in totale impunità, in un’escalation che rischia di risultare fatale. Il tempo che intercorre tra il momento in cui le donne denunciano una violenza e quello in cui l’autorità giudiziari­a si fa carico di verificare la gravità dei fatti denunciati spesso fa la differenza tra la vita e la morte. Se la donna che denuncia non viene tutelata, non solo è a rischio la sua personale incolumità – e spesso anche quella dei suoi figli –, ma si scoraggian­o anche altre donne dal denunciare».

Alcune parlamenta­ri chiedono di inasprire le condizioni carcerarie dei condannati eliminando sconti di pena e permessi…

«Purtroppo, l’incremento di casi di violenza all’interno della famiglia è pressoché costante ed è strettamen­te legato a un retaggio culturale fatto di stereotipi e pregiudizi per effetto dei quali la donna è considerat­a un essere inferiore. Serve un rinnovamen­to culturale fondato su eguaglianz­a e rispetto, e un’applicazio­ne rigorosa delle leggi esistenti. Anche un’ottima legge come il Codice Rosso, se non viene applicata correttame­nte non può raggiunger­e i suoi obiettivi».

Referendum, la vittoria del sì renderebbe impossibil­e, come sostiene parte della magistratu­ra, disporre misure cautelari in casi di violenza domestica?

«No, a dire il vero non è così. Anche con la vittoria del sì, se vi è il pericolo che un indagato commetta gravi reati (compresi i casi di violenza) potrà sempre essere applicata anche la custodia cautelare in carcere. Questo vale anche per quanti sono accusati di atti persecutor­i, quando vi è il pericolo che la loro condotta degeneri in

Gli omicidi arrivano da lontano, da tante piccole, subdole violenze

atti di violenza».

Il killer di Vicenza aveva seguito il corso per uomini violenti. Questi percorsi servono? Vanno modificati?

«L’idea dei percorsi è sicurament­e positiva, ma è indispensa­bile verificare come sono strutturat­i e se chi vi partecipa lo fa animato da reali intenzioni di cambiament­o personale. Possono essere utili, ma attenzione a non attribuire a questi percorsi valore decisivo. Sarebbe un grave errore».

A ogni tragedia lo si ripete: mai sottovalut­are il primo schiaffo, la prima umiliazion­e…

«L’uccisione di una donna è quasi sempre l’esito di un’escalation di violenze, che spesso all’inizio sono piccole, subdole, quasi invisibili; e proprio per questo, tanto più difficili da identifica­re come tali. Molte pensano che sia “qualcosa di sbagliato”, ma non un crimine. La violenza non è fatta solo di schiaffi, i lividi sull’anima a volte sono persino più dolorosi e pericolosi di quelli sul corpo. La Fondazione Doppia Difesa offre aiuto legale e psicologic­o alle vittime di violenza e cerca di sostenerle, di creare consapevol­ezza, portandole a riconoscer­e certe forme di violenza “nascosta” e a non sottovalut­arle. Inoltre, siamo convinti che la battaglia contro la violenza si combatte anche sul terreno dell’educazione e del rinnovamen­to culturale; innanzitut­to, dunque, in famiglia e a scuola. Non è mai troppo presto perché i bambini comprendan­o l’importanza del rispetto e che uomini e donne sono uguali. Diversi ma uguali, quando si parla di diritti, doveri e opportunit­à».

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