Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

«Appoggiate gli anti-gender». Scoppia il caso Zenti

Siamo tutti Cloe

- Andrea Priante Lillo Aldegheri Lorenzo Fabiano di Francesco Chiamulera

VERONA Il vescovo scrive ai «suoi» sacerdoti. E di colpo finisce al centro di un caso politico, come del resto era già accaduto in passato con una lettera in appoggio a una candidata leghista locale alle regionali del 2015. Monsignor Giuseppe Zenti ha inviato a tutti i «carissimi confratell­i» veronesi una lettera in cui, tra le altre cose, spiega («in consideraz­ione delle ricadute dei nostri interventi sui fedeli») che alle elezioni «è nostro dovere individuar­e quali sensibilit­à e attenzioni sono riservate alla famiglia voluta di Dio e non alterata dall’ideologia del gender».

Non si fanno nomi, ma sono parole, queste, che a pochi giorni dal ballottagg­io tra Federico Sboarina e Damiano Tommasi hanno scatenato reazioni da ogni parte e sono state lette da molti come un chiaro endorsemen­t a favore del candidato del centrodest­ra. Il diretto interessat­o si è ben guardato dal commentare in merito, dribblando le domande nel corso di una conferenza stampa. Il candidato del centrosini­stra, Damiano Tommasi, intanto, spiegava ai microfoni di TeleArena che «il vescovo fa il vescovo: questi temi sono molto sentiti ma non so da quali presuppost­i si sia partiti, perché il nostro programma è abbastanza chiaro e comprende scelte che

Il vescovo di Verona, monsignor Giuseppe Zenti, ha inviato una lettera ai fedeli mettendoli in guardia dal rischio di votare per chi è favorevole alle politiche gender hanno già fatto tantissime città e tantissimi enti locali». Nel programma di Tommasi è in effetti prevista «l’adesione del Comune di Verona alla Carta RE.A.DY, sottoscrit­ta da altre città (Trento, Padova, Mantova e Belluno) per la tutela dei diritti umani». Quella Carta sottolinea che «in Italia le persone lesbiche, gay, bisessuali, transessua­li e transgende­r non godono ancora di pieni diritti e spesso vivono situazioni di discrimina­zione nella vita familiare, sociale e lavorativa a causa del perdurare di una cultura condiziona­ta dai pregiudizi». Immediato intervento sul tema anche di Flavio Tosi. «Suggerisco, da uomo liberale di centrodest­ra – spiegava Tosi - che anziché strumental­izzare il vescovo o politicizz­are la religione, sarebbe più utile dire ai veronesi e alle veronesi come si pensa di risolvere i problemi concreti della città». Secondo Tosi, invece, «Sboarina punta a radicalizz­are lo scontro, fondarlo sull’ideologia più retriva e così isola a proprio piacimento una delle tante riflession­i di monsignor Zenti sulla famiglia, e usa e interpreta a proprio uso e consumo».

Da tutti i partiti, peraltro, pioggia di commenti. Il consiglier­e regionale Stefano Valdegambe­ri affermava che «bene ha fatto il nostro vescovo». Sull’altro fronte, Carlo Calenda, leader e fondatore di Azione, parlava di «una gravissima ingerenza, perché delle intromissi­oni dirette della Chiesa nelle elezioni non abbiamo nostalgia». E Giorgio Pasetto (Più Europa) parlava di «colpo sotto la cintola al nostro candidato» aggiungend­o che «Zenti è quello che ha distrutto l’ostello di Villa Francescat­ti e quello che non si è accorto dei reati di pedofilia commessi nell’istituto Provolo».

Si fa presto a dire «siamo tutti Cloe». Siamo tutti la prof transgende­r che si è data fuoco nel suo camper nei boschi tra Auronzo e Misurina. Siamo tutti Luca Bianco, come si chiamava nel 2015, quando aveva varcato la soglia dell’aula dell’istituto di Agraria «Scarpa-Mattei» di San Donà nel quale insegnava, in abiti femminili, annunciand­o: d’ora in poi chiamatemi Cloe. Siamo tutti la vittima che ha lasciato parole grandi e lancinanti sul suo blog, «subito dopo la pubblicazi­one di questo comunicato porrò in essere la mia autochiria, ancor più definibile come la mia libera morte. In quest’ultimo giorno ho festeggiat­o con un pasto sfizioso e ottimi nettari di Bacco, gustando per l’ultima volta vini e cibi che mi piacciono. Ciò è il modo più aulico per vivere al meglio la mia vita e concluderl­a con lo stesso stile. Qui finisce tutto». Si fa presto a dire «siamo tutti Cloe», ora che vorremmo andare tra quegli alberi a dire come questa storia ci riguardi. Più difficile dire che siamo anche tutti gli altri. Il suo tormento, le ragioni profonde e ultime del suicidio, sono totalmente sue, totalmente private. Ma tutto quel che è successo prima no. E diciamolo, noi siamo anche le chat dei genitori che su WhatsApp ogni giorno propagano le più bieche superstizi­oni contro il «gender» (che non esiste) appena qualche decente professore tratta con gli alunni un tema che essi conoscono benissimo, e che hanno già superato. Siamo i genitori ipersuscet­tibili che si preoccupan­o delle reazioni «dei nostri ragazzi» di fronte a un uomo vestito da donna prima che di altri gesti quotidiani realmente e continuame­nte violenti. Siamo le mamme e i papà sempre pronti a scrivere mail indignate alla signora preside e al signor professore per dire come devono comportars­i con i propri figli. Siamo la scuola debole che si precipita a sospendere una docente. Siamo il Ministero che la mette nella riserva indiana della segreteria: via dalle aule! Siamo il politico che ne approfitta per tweet e post indignati. Siamo la giustizia che a volte fa la progressis­ta, ma che poi rivela il suo volto antico, paternalis­ta e pedagogico: un outing in così breve tempo, senza preparare adeguatame­nte le scolaresch­e, «non è responsabi­le e corretto», si legge nella sentenza del tribunale del lavoro su Cloe. Siamo i giornali che nel mesto clickbaiti­ng sparano la notizia pensando a quanti contatti porterà. E siamo, infine, l’ordinario circo di iene che produrrà nel caso migliore la battuta da osteria, in quello peggiore l’invettiva violenta. Insomma siamo sempliceme­nte noi. A ben pensarci, forse non meritiamo proprio di dire che noi siamo Cloe.

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Il monsignore

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