Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)
«Un marocchino non merita l’esercito» Condannato il sergente degli Alpini
La Cassazione: a Belluno insulti razzisti all’ufficiale d’origine magrebina
VENEZIA Karim Akalay Bensellam, padre marocchino, fin da bambino ha avuto un sogno: entrare nell’Esercito italiano. S’è impegnato con tutto se stesso, ha frequentato l’accademia di Modena e, dopo la scuola d’addestramento a Torino, è stato finalmente destinato a Belluno. E ha fatto carriera: è diventato il primo ufficiale degli Alpini di origini maghrebine. Al Settimo Reggimento era il capitano Bensellam, al comando di 120 uomini. Poi, maggiore ad Aosta. E può vantare anche varie missioni all’estero, soprattutto in Afghanistan dove veniva utilizzato come uomo di contatto con la popolazione locale.
Sembra una bella storia, di resilienza e integrazione. Ma a quanto pare c’è chi non ha mai sopportato che a uno come lui, con le sue origini, fosse dato il diritto di indossare la divisa. Perché così «rubava il posto agli italiani».
La Cassazione ha condannato un sottoufficiale di stanza a Belluno, a un anno e tre mesi di reclusione militare per il reato di diffamazione continuata, con l’aggravante «dell’avere commesso il fatto per finalità di discriminazione, di odio etnico, nazionale e razziale». Trova così conferma la sentenza della Corte militare d’Appello di Roma, che nel gennaio 2021 aveva stabilito la stessa condanna nei confronti di Carmelo Lo Manto, 47enne sergente maggiore originario di Canicattì (Agrigento) ed effettivo al Settimo Reggimento Alpini. L’unica concessione fatta dalla Suprema Corte, riguarda la possibilità che ora i giudici possano rivalutare l’opportunità di concedergli la sospensione condizionale della pena.
I fatti risalgono al periodo che va dalla fine del 2014 alla prima metà del 2017. Ma tra Lo Manto e il suo superiore non correva buon sangue già da parecchio tempo. C’erano state delle zuffe e pure Bensellam era finito sotto processo con l’accusa di aver aggredito il sergente: la vicenda si era chiusa con un proscioglimento per «particolare tenuità del fatto». Eppure era stata proprio quella prima sentenza a innescare l’indagine per razzismo. Perché alcuni colleghi avevano rivelato gli insulti che Lo Manto era solito rivolgere al capitano, ovviamente stando ben attento che lui non lo sentisse.
Stando all’accusa, «durante le cerimonie dell’alzabandiera e durante gli addestramenti, alla presenza di numerosi militari» il sergente aveva «offeso la reputazione del capitano Bensellam» con frasi come: «Sto marocchino di m. gliela farò pagare in un modo o nell’altro», «Sto marocchino non è degno di stare nell’esercito italiano», «Ha rubato un posto in Accademia a un italiano», «È un meschino»...
Il sergente maggiore ha sempre negato ogni responsabilità, sostenendo di avere le prove della propria innocenza. Ma contro di lui c’erano quattro testimonianze, sufficienti, secondo la Cassazione, a dimostrarne la colpevolezza.
"Il reato Diffamazione aggravata per le finalità di discriminazione, di odio etnico, nazionale e razziale