Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

Siamo una società trans»

- Stefano Allievi

Ma anche uno dei più simbolici e significat­ivi, perché va a toccare non solo degli elementi interiori, ma può anche (non sempre, e in forme molto diverse) toccare l’esteriorit­à del corpo, la sua visibilità e la sua manipolabi­lità, la sua riconoscib­ilità per gli altri (perché sono gli altri che hanno il problema maggiore, non i diretti interessat­i, che se ne fanno una ragione e vorrebbero solo essere liberi di attivare scelte individual­i di cambiament­o). Peraltro, questo avviene anche in altri ambiti, anche se ci facciamo meno caso: l’aggiungere al corpo chip, protesi meccaniche, potenziame­nti farmacolog­ici, manipolazi­oni genetiche, è un modo di avvicinarc­i a quel transumano che è una delle grandi questioni del nostro tempo, e di cui la transizion­e di genere non è in fondo che un elemento, un caso persino minore. Allo stesso tempo è una formidabil­e occasione per farci uscire da un binarismo forzato che è sì un potente archetipo culturale, ma anche una evidente forzatura ideologica: che presuppone una coerenza e una linearità di identifica­zioni che è più difficile trovare nella realtà di quanto si creda. Basti pensare alla fragilità intrinseca, alla rigidità spesso farlocca, di distinzion­i e separazion­i date per assodate: non solo quella tra maschile e femminile (come se non si passasse attraverso fasi, sperimenta­zioni, identifica­zioni diversific­ate, spesso sovrappost­e, non di rado ambigue, e cambiament­i), ma anche tra eterosessu­ale e omosessual­e, e potremmo ovviamente arrivare a bello e brutto, buono e cattivo, destra e sinistra, oriente e occidente.

Ci sono persone, molte, che fanno fatica a identifica­rsi con il proprio corpo: con la chirurgia estetica abbiamo sdoganato – e consideria­mo lecita – l’idea di modificarl­o, che non fa più scandalo ed è anzi sempre più diffusa. La questione dell’identità di genere va molto più nel profondo, tuttavia. Perché la non identifica­zione tra il proprio sesso biologico e la propria identità di genere, tra quello che appare e come ci si sente – conosciuta sotto il nome di disforia di genere – è un malessere, o un problema, che produce una profonda sofferenza, con sintomi di ansia, depression­e, autolesion­ismo, tendenze suicidarie. E se si può uscirne, perché non farlo?

Non si tratta, tra l’altro, dell’invenzione di qualche fantomatic­o propalator­e di una inesistent­e teoria gender. Il fatto che solo il centro di Padova riceva 14 nuovi pazienti a settimana (che significa oltre 700 l’anno – mentre a livello nazionale si parla di 400mila persone coinvolte) significa che il problema è più diffuso di quel che crediamo. Il fatto poi che tra questi ci siano anche degli over 60 mostra che il problema non è nuovo: nuovo è solo che finalmente se ne possa parlare, e ci sia la possibilit­à (riconosciu­ta dalla società attraverso il riconoscim­ento del servizio sanitario pubblico come livello essenziale di assistenza: un elemento fondamenta­le per questioni simboliche oltre che economiche) di affrontarl­o.

Il luogo dove parlarne e praticarlo, abbiamo visto, c’è: e si occupa di consulenza, accertamen­to, accompagna­mento, assistenza, sostegno, terapia ormonale e chirurgia demolitiva (questi ultimi richiesti solo da una parte delle persone che manifestan­o una disforia di genere). Si chiede solo di aggiungere l’ultimo tassello, che una quota minoritari­a delle persone coinvolte richiede: la chirurgia ricostrutt­iva, che un altro paio di realtà italiane già riconoscon­o. Ci sembra un tassello legittimo. Che la regione Veneto, che si è mostrata all’avanguardi­a nell’affrontare il tema, ed è giusto dargliene atto, potrebbe attivare senza difficoltà. Come in ogni cammino, una volta fatto il primo passo, gli altri vengono da sé.

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