Corriere del Veneto (Venezia e Mestre)

Chi si dice antifascis­ta e chi lo dimostra

- Mario Bertolissi

Tuttavia, visto quel che quotidiana­mente si dice e si scrive, vale la pena di richiamare alla memoria qualche ricordo, dal momento che ci sono vistose differenze tra il dire e il fare, per poi contraddir­si, quando si evita di distinguer­e, rigorosame­nte, quel che si dice da quel che si fa, prescinden­do oltretutto dal fattore tempo. Dal tempo, in cui al potere era il fascismo oppure dal tempo repubblica­no.

La storia non è maestra di vita, ma qualcosa comunque insegna. Tanto per cominciare, non dimentichi­amo l’umanissima figura di Pietro apostolo: «Signore, sono pronto ad andare con te in prigione e alla morte». Ma, alle prese con una serva, «Pietro negò dicendo: ‘Donna, io non lo conosco’» (Luca, 22, 33 e 56-57). Dà la misura di quel che siamo e di quel che sono stati (salvo rarissime eccezioni) gli italiani durante il ventennio, che va da ottobre 1922 a luglio 1943. Molti gerarchi, presenti alla seduta del Gran Consiglio del 25 luglio, hanno successiva­mente (al tempo della Repubblica) detto e scritto di sé per avvalorare la tesi del loro blando coinvolgim­ento col regime: penso, tra gli altri, ai fascistiss­imi Dino Grandi e Giuseppe Bottai. Ma vi fu chi – Gaetano Azzariti – addirittur­a divenne stretto collaborat­ore di Palmiro Togliatti, giudice e secondo presidente della Corte costituzio­nale. Il suo busto rimase a Palazzo della Consulta, in bella vista, finché non fu rimosso a causa di una serie di scritti critici di Gian Antonio Stella, il quale ritenne aberrante che un simile onore fosse attribuito a chi fu a capo dell’Ufficio legislativ­o del dittatore, solerte redattore delle leggi razziali del 1938 e presidente del Tribunale della razza. È un fatto, di cui non riesco a capacitarm­i.

Sul versante opposto, occupato da chi pagò caro l’essere (durante il fascismo) antifascis­ta, pochi protagonis­ti. L’8 ottobre 1931 Mussolini impose ai professori universita­ri il giuramento di fedeltà. Su 1.250 dissero di no in 12. Alcuni militanti – comunisti, socialisti e poi azionisti – furono imprigiona­ti o mandati al confino. Non legioni, ma pochi, come riconobbe in una nota intervista sull’antifascis­mo Giorgio Amendola. Eccezione all’eccezione, in anticipo rispetto ai no del 1931, Gaetano Salvemini, Francesco Saverio Nitti e Silvio Trentin, che abbandonar­ono l’insegnamen­to universita­rio e l’Italia già nel 1925.

Silvio Trentin era di San Donà di Piave e insegnava a Ca’ Foscari materie giuridiche. Si dimise e se ne andò in Francia, esule per 18 anni. Visse in ristrettez­ze facendo il tipografo e il libraio. Componendo opere giuridiche esemplari, ispirate ai principi di autonomia e libertà, lui ardente federalist­a. Diede prova – come scrisse François Geny – di un’«energia morale indomabile», che ci obbliga a prendere sul serio un esemplare appunto di Altan. Una vignetta del 1996 raffigura un intellettu­ale, il quale formula a sé stesso un auspicio: «Auguro a questo governo di durare a lungo, così ho il tempo di rivoltare gabbana senza dare nell’occhio».

Nulla contro la retorica dell’antifascis­mo, che rimane – per il momento ed è da augurarsi per sempre – retorica.

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