Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
QUEGLI ESAMI DI (IM)MATURITÀ
Ieri per migliaia di giovani sono iniziate le prove per l’esame di maturità che ha lo scopo di accertare i risultati acquisiti al termine di tredici anni di scuola. Il titolo «in palio» è importante perché consente di accedere a concorsi e iscriversi ad albi professionali. Il diploma ha un valore legale che qualcuno vorrebbe abolire con qualche buona ragione. Ma l’esame di maturità è diventato anche un rito iniziatico contemporaneo che segna il passaggio dall’adolescenza alla giovinezza. Nei paesi con cui solitamente ci confrontiamo questo spartiacque della vita è vissuto in modo ancor più evidente. Gran parte dei giovani, una volta diplomati, lascia la famiglia sia che vada a studiare all’università, sia che trovi un lavoro. I giovani preferiscono una vita (temporaneamente) modesta in cambio di libertà e per mettersi alla prova. Invece, in Italia, i giovani continuano di solito a vivere in famiglia. L’esame è quindi meno iniziatico e, al di là del «pezzo di carta», di una vera maturità interessa poco.
Quasi ovunque all’estero l’esame si sostiene a 18 anni, con la maggiore età. In Italia si procrastina lo studio fino ai 19 che per i numerosi ripetenti diventano venti o ventuno. Non sarebbe da farsene un cruccio sebbene un anno per i giovani non sia indifferente. Il problema invece sta nella struttura organizzativa delle scuole, nei metodi didattici e nei regolamenti disciplinari che rimangono pressoché invariati sia che si rivolgano a bambini di 11 anni o giovani di 19. Perciò, l’ultimo anno di scuola è una perdita di tempo e crea tensioni e frustrazioni in un’età in cui i giovani sono inclini a crearsele da soli. Soprattutto se sono deresponsabilizzati come prevedono l’organizzazione e le norme vigenti. Soprattutto, lo studio e l’esame, finalizzati al solo titolo, sono percepiti dai più come una pena e un obiettivo da conseguire a ogni costo: è assente il piacere dell’apprendimento. Quindi si finisce per tollerare (se non apprezzare) la comune pratica degenerata di imbrogli e sotterfugi studiati per passare l’esame.
Le rigidissime regole poliziesche previste sono spesso violate perché l’iniziazione non consiste nell’imparare la civiltà, ma nel farsi furbi per violare le norme. Un atteggiamento umiliante per gli allievi che, anziché maturità, dimostrano insicurezza. Ma anche per una scuola – specchio della società – impossibilitata e poco interessata a veicolare valori civici e morali. Su questi temi di attualità il ddl del governo apriva al dialogo, ma i sindacati si sono arroccati sulla conservazione dell’esistente e su rivendicazioni antiche.