Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
LA (IN)DECISIONE DEL GIUDICE
Il Tribunale di Treviso ha ritenuto di rimettere al vaglio della Corte Costituzionale la legittimità della normativa dello scorso febbraio che ha introdotto la responsabilità civile dei magistrati (prevista invero solo per decisioni prese con dolo o colpa grave), poiché essa minerebbe la libertà di giudizio e determinerebbe il giudice, in particolar modo in procedimenti di carattere indiziario, ad assumere una posizione «difensiva», quella meno rischiosa, così decidendo inevitabilmente per l’assoluzione dell’imputato. In altri termini, il rischio risarcitorio indurrebbe il Giudice, nei casi di dubbio, ad assumere la decisione più preservativa «per le proprie tasche», non necessariamente la più giusta. Nel caso specifico, nel dibattimento erano «emersi solo elementi indiziari e la valutazione di questi è, come noto, particolarmente difficile e rischiosa in ordine alla correttezza e all’esito del giudizio».
Ebbene, era davvero necessario rivolgersi alla Corte Costituzionale? E ancora, esistono nell’ordinamento soluzioni al problema di come debba comportarsi il giudice quando nel processo emergono solo elementi indiziari? La vicenda è per certi versi sintomatica di quale sia il ritardo culturale nel nostro Paese in ordine alla applicazione concreta di un principio di civiltà giuridica che sembra far parte del nostro sistema giudiziario «solo sulla carta», senza purtuttavia che rispetto ad esso si sia compiuta quella autentica e profonda riflessione tale da farne un cardine dei moderni ordinamenti processuali: il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio.
Esso introdotto, oramai da quasi 10 anni (L. 46/2006), prevede – appunto – che il Giudice pronunci sentenza di condanna solo se «l’imputato risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio» (art. 533 codice di procedura penale). Non si tratta di una frase scaramantica o di una regola misteriosa, ma di quello stato di cose che – sul piano soggettivo – lascia la mente del giudice nella condizione di non poter dire di provare una convinzione ferma ed incrollabile, prossima alla certezza morale, nella verità dell’imputazione. In presenza di più ipotesi ricostruttive del fatto, il giudice – per pervenire ad una sentenza di condanna – non solo deve ritenere non probabile l’eventuale diversa soluzione che conduce alla assoluzione dell’imputato, ma deve altresì ritenere che il dubbio su questa ipotesi alternativa non sia ragionevole.
Deve cioè trattarsi di ipotesi non plausibili o comunque prive di qualsiasi conferma, che si pongono di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana, prive insomma del benché minimo riscontro nelle emergenze processuali.
Cosicché la valutazione degli elementi indiziari, eventualmente di segno contrastante, non può che portare ad una conclusione: l’assoluzione dell’imputato. E ciò non perché il Giudice debba avere timore della ‘ritorsiva’ azione risarcitoria eventualmente mossa nei suoi confronti, ma – molto più banalmente – perché ciò gli impone legge. E certo sì, sarebbe in colpa, (anche grave), se di fronte alla consapevolezza di una quadro probatorio ‘dubbioso’ si determinasse purtuttavia per la condanna dell’imputato.