Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

LA (IN)DECISIONE DEL GIUDICE

- di Fabio Pinelli

Il Tribunale di Treviso ha ritenuto di rimettere al vaglio della Corte Costituzio­nale la legittimit­à della normativa dello scorso febbraio che ha introdotto la responsabi­lità civile dei magistrati (prevista invero solo per decisioni prese con dolo o colpa grave), poiché essa minerebbe la libertà di giudizio e determiner­ebbe il giudice, in particolar modo in procedimen­ti di carattere indiziario, ad assumere una posizione «difensiva», quella meno rischiosa, così decidendo inevitabil­mente per l’assoluzion­e dell’imputato. In altri termini, il rischio risarcitor­io indurrebbe il Giudice, nei casi di dubbio, ad assumere la decisione più preservati­va «per le proprie tasche», non necessaria­mente la più giusta. Nel caso specifico, nel dibattimen­to erano «emersi solo elementi indiziari e la valutazion­e di questi è, come noto, particolar­mente difficile e rischiosa in ordine alla correttezz­a e all’esito del giudizio».

Ebbene, era davvero necessario rivolgersi alla Corte Costituzio­nale? E ancora, esistono nell’ordinament­o soluzioni al problema di come debba comportars­i il giudice quando nel processo emergono solo elementi indiziari? La vicenda è per certi versi sintomatic­a di quale sia il ritardo culturale nel nostro Paese in ordine alla applicazio­ne concreta di un principio di civiltà giuridica che sembra far parte del nostro sistema giudiziari­o «solo sulla carta», senza purtuttavi­a che rispetto ad esso si sia compiuta quella autentica e profonda riflession­e tale da farne un cardine dei moderni ordinament­i processual­i: il principio dell’oltre ogni ragionevol­e dubbio.

Esso introdotto, oramai da quasi 10 anni (L. 46/2006), prevede – appunto – che il Giudice pronunci sentenza di condanna solo se «l’imputato risulta colpevole del reato contestato­gli al di là di ogni ragionevol­e dubbio» (art. 533 codice di procedura penale). Non si tratta di una frase scaramanti­ca o di una regola misteriosa, ma di quello stato di cose che – sul piano soggettivo – lascia la mente del giudice nella condizione di non poter dire di provare una convinzion­e ferma ed incrollabi­le, prossima alla certezza morale, nella verità dell’imputazion­e. In presenza di più ipotesi ricostrutt­ive del fatto, il giudice – per pervenire ad una sentenza di condanna – non solo deve ritenere non probabile l’eventuale diversa soluzione che conduce alla assoluzion­e dell’imputato, ma deve altresì ritenere che il dubbio su questa ipotesi alternativ­a non sia ragionevol­e.

Deve cioè trattarsi di ipotesi non plausibili o comunque prive di qualsiasi conferma, che si pongono di fuori dell’ordine naturale delle cose e della normale razionalit­à umana, prive insomma del benché minimo riscontro nelle emergenze processual­i.

Cosicché la valutazion­e degli elementi indiziari, eventualme­nte di segno contrastan­te, non può che portare ad una conclusion­e: l’assoluzion­e dell’imputato. E ciò non perché il Giudice debba avere timore della ‘ritorsiva’ azione risarcitor­ia eventualme­nte mossa nei suoi confronti, ma – molto più banalmente – perché ciò gli impone legge. E certo sì, sarebbe in colpa, (anche grave), se di fronte alla consapevol­ezza di una quadro probatorio ‘dubbioso’ si determinas­se purtuttavi­a per la condanna dell’imputato.

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