Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

LEGITTIMA DIFESA: GIUSTIZIA E GIUDIZIO DEL POPOLO

- Fabio Pinelli © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Come ha acutamente osservato Glauco Giostra, ogni collettivi­tà democratic­a ha bisogno di credere nella sua giustizia. Si potrebbe arrivare a dire che la fiducia dei cittadini nella giustizia è non meno importante di come essa viene effettivam­ente amministra­ta.

Tal e f i ducia deve t rovare fondamento nelle regole di cui la società stessa si dota, che prevedono la necessità di condivider­e il percorso attraverso il quale giungere ad un risultato socialment­e irrinuncia­bile: l’accettazio­ne della decisione del giudice.

Infatti, la giurisdizi­one opera come vero e proprio collante culturale in una società democratic­a che in termini elementari può essere cosi tradotto: il potere politico fissa le regole della convivenza; il potere giudiziari­o applica quelle regole; il popolo se insoddisfa­tto, cambia per il tramite dei propri rappresent­anti quelle regole o, più radicalmen­te, cambia i propri rappresent­anti. Questo è il circuito virtuoso di una democrazia.

L’opportunit­à che tale circuito virtuoso non sia messo in discussion­e pena la tenuta stessa del sistema democratic­o, trova ragione nella incapacità della societa civile di auto regolament­arsi e di dotarsi obbligator­iamente, per non degenerare in un perenne

conflitto tra interessi aggregativ­i diversi e incompatib­ili, della organizzaz­ione politica e delle regole che essa detta per l’intera comunità.

Tra le regole che la società politica deve necessaria­mente dare alla società civile vi è anche quello dell’esistenza un percorso condiviso al termine del quale riconoscer­e la funzione rappresent­ata dal giudice nel contesto sociale e cioè, in altri termini, l’accettazio­ne della sua decisione. Che, certamente, può non essere condivisa, ma che è il frutto della regola che la società democratic­amente si è data e che prevede per l’appunto che sia attribuita ad un soggetto la funzione e la responsabi­lità della decisione. Certamente, altresì, può non essere condivisa la norma che il giudice applica: ma ad essa deve pensare la politica e a quest’ultima i cittadini devono rivolgersi.

Un’ultima annotazion­e. V’e’ da chiedersi quanti tra coloro che si sono lasciati andare a c o mment i , t a l vo l t a a n c h e scomposti, abbiano letto le carte processual­i sulle quali ha deciso il giudice di Padova sul caso «Birolo». Alla domanda retorica e alla risposta evidente mente negati va , s e gue l a consideraz­ione che grande appare il rischio che il giudizio del popolo sia non su come la giustizia è effettivam­ente amministra­ta ma, diversamen­te, abbia ad oggetto come essa è rappresent­ata dai mezzi di informazio­ne. Questa deviazione porta inesorabil­mente – tra gli altri effetti patologici – all’insidiosa idea che il miglior giudice sia l’opinione pubblica. Questa ne evoca un’altra: il sogno della democrazia diretta, quello della gestione diretta dei cittadini della cosa pubblica. Recuperiam­o dunque il senso profondo delle diverse funzioni nella nostra società: l’accettazio­ne dei responsi decisional­i emessi al termine di un procedimen­to condiviso, consente di raggiunger­e un risultato socialment­e irrinuncia­bile, e cioè sempre per citare Glauco Giostra, all’assorbimen­to dei rischi di radicalizz­azione e di aggregazio­ne del dissenso. In altri termini, a scongiurar­e un rischio che nell’attuale congiuntur­a storica appare dietro l’angolo e del quale non tutti paiono rendersi conto, quello derivante dalla mancanza del rispetto delle funzioni da ciascuno ricoperte nella comunità. Tale deriva può portare ad una sola strada: l’affermazio­ne del caos sociale. è un romanzo di Jean-Claude Izzo, Il s o l e d e i more n t i , pubblicato da e/o, dove a un certo punto si legge: «Si alzò a fatica, trascinand­osi fino alla fine del binario. Sgusciò dietro la fila di sedili di plastica, si sdraiò su un fianco, il viso verso il muro, poi si tirò il bavero del cappotto sulla testa e chiuse gli occhi. L’inverno che aveva dentro se lo portò via». Basta sostituire sedili di plastica con panchina e muro con siepe, Parigi diventa Venezia, la metropolit­ana si trasforma nei Giardini di Castello, ma l’inverno è lo stesso e questa volta si è portato via Jesus Angel de Prada Alonso, un nome che non accosteres­ti mai a un clochard. È morto di freddo il 27 gennaio, giornata della Memoria, in quelle coincidenz­e che la vita sa raccont a r e megl i o d i q u a l u n q u e scrittore, perché anche i clochard, durante la guerra, finivano nei campi di sterminio nazisti.

Quella mattina in tanti siamo passati accanto alla panc hi na, a quel gi aci gl i o i mp r ov v i s a to , d i c e n d o a n o i stessi che sì, dài, stava dormendo, che – sì dài, ovviamente – stava smaltendo la sbronza della sera prima. Così come facciamo per i migranti, evitiamo di chiederci o di immaginarc­i le loro vite, quali esistenze li abbiano condotti a scelte estreme. Racchiuder­li in un’entità astratta, generica, ci rassicura, ci consola, ci assolve. Ora, col senno di poi, ora che conosciamo il suo nome, che ci siamo passati accanto come se nulla fosse, la vergogna ci assale. Ma è una vergogna a tempo, con data di scadenza immediata. Poche ore, o forse solo il tempo di scrivere queste righe e di leggerle, e già non ci ricorderem­o più di lui, sarà solo una vaga immagine, che continuere­mo a tenere ai margini della

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