Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Dalle Prealpi ai Mari del Sud, i veneti tra i cannibali
Il libro «Storie straordinarie di italiani nel Pacifico» raccoglie le vicende degli emigranti agli antipodi del pianeta. Nel 1880 un gruppo di trevigiani e friulani toccò l’arcipelago delle Bismark
Qualcuno di quelli che vedete nella foto qua sopra se lo sono pure mangiato i cannibali, e considerate che durante il viaggio dall’Europa erano già morti venti bambini e sette adulti. L’immagine è stata scattata il 13 novembre 1880, dall’altra parte del globo: sull’isola dell’arcipelago delle Bismarck, al largo della Papua Nuova Guinea, che oggi si chiama Nuova Irlanda, ma che nei vaneggiamenti di un marchese bretone squinternato e truffatore sarebbe dovuta diventare la Nuova Francia. La foto è quasi del tutto sconosciuta in Europa, proviene dall’archivio di Sydney, in Australia, città dove si è conclusa la storia di questi poveracci raggirati, vessati e in parte pure ammazzati.
Le persone ritratte venivano dalla pedemontana veneta e friulana, quella compresa tra Sile e Livenza: Oderzo, Francenigo, Sacile, Codognè, e le zone lì attorno. Erano stati convinti a partire da un comasco, un ex garibaldino, tal Edvige Schenini che agiva per conto del marchese di Rays, ovvero il bretone di cui sopra che si era inventato un paradiso terrestre inesistente, dove lui non metterà mai nemmeno piede.
«Dalle Prealpi alle isole dei cannibali» è una delle dieci vicende raccontate in un volume collettaneo pubblicato da Odoya a cura di Marco Cuzzi e Guido Carlo Pigliasco con il titolo Storie straordinarie di italiani nel Pacifico. Si tratta di avventure mirabolanti, come lo zaratino John Dominis che nel 1862 sposa la regina delle Hawaii, o il botanico fiorentino Odoardo Baccari che conosce prima conosce Charles Darwin e nel 1865 si trasferisce per tre anni a Sarawak, nel Borneo, a caccia di fiori e piante.
Ora però torniamo ai trevigiani e ai sacilesi finiti agli antipodi. In quel 1880 al benessere del mitico Nordest mancava quasi un secolo e per sfuggire alla miseria si mollava tutto e si andava «a catar fortuna». Il 9 luglio 1880 partono in 293 da Barcellona, a bordo dell’India, una nave che oggi sarebbe definita «carretta del mare.» A ogni famiglia erano stati promessi una casa di quattro stanze e venti ettari di terra. Il governo italiano aveva fiutato odore di bruciato e aveva cercato di fermarli, ma invano: molti avevano venduto ogni cosa nell’illusione che presto le pene sarebbero finite. Come detto, durante il viaggio muoiono in 27 e quelli che arrivano nella fantomatica Port-Breton, non trovano né case né fertili terreni in attesa dell’aratro: c’è solo un capannone che sarebbe dovuto essere la chiesa, ma era stato invece trasformato in un dormitorio. Attorno, una baia dal mare scuro, scogli, terreno spugnoso imbevuto d’acqua, e alle spalle la fittissima foresta pluviale, impenetrabile, che s’inerpica sui costoni delle alture.
I veneti e i friulani ci provano pure a dissodare quel terreno infido, a costruire qualche edificio. Mangiano e dormono a bordo della nave, e continuano a morire: dopo l’arrivo la conta delle vittime sale a quota 48 (da sommare ai precedenti). Non c’è niente da fare: bisogna andarsene.
Sei fuggono alla chetichella: si impadroniscono di una barca e lasciano Port-Breton e raggiungono le isole Salomone. Cinque vengono immediatamente uccisi e mangiati. Il sesto – che di cognome fa Boero, o Buoro – si salva perché diverte i nativi scoppiando in lacrime a comando. Viene venduto a un’altra tribù, dove diventa «più cannibale di chiunque di loro.» Dopo un anno viene catturato da una specie di nave schiavista, ma quando l’equipaggio lo lava e si rende conto che si tratta di «un italiano che non può essere venduto» lo abbandona: non ha alcun valore commerciale anche perché nel frattempo è divenuto «del tutto imbecille.»
Gli altri il 20 febbraio 1881 si impadroniscono dell’India, obbligano il capitano a salpare gli ormeggi e riescono a raggiungere l’Australia dove fonderanno una colonia di nome Cea Venessia (Piccola Venezia, per i non trevigiani).