Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

Emigranti

Tre milioni di veneti partiti a fine ‘800, altri nel dopoguerra Le rimesse base per la rinascita

- di Vittorio Filippi © RIPRODUZIO­NE RISERVATA

Viviamo ormai in un «pianeta stretto», come titola l’ultimo libro del demografo Livi Bacci. Stretto per due motivi. Il primo è che la sua popolazion­e è cresciuta di ben mille volte e - dicono le previsioni - continuerà a crescere ancora, fino ai 10 miliardi verso la seconda metà del secolo. Un pianeta talmente affollato da offrire ad ogni suo abitante, mediamente, solo lo spazio di mezzo campo di calcio. Il secondo motivo à che comunicazi­oni e movimenti si sono moltiplica­ti all’inverosimi­le. Tutto è in movimento e tutti siamo in movimento: nelle reti elettronic­he, nei turismi, nelle migrazioni, nei commerci e nel business. È quella che si chiama la quarta globalizza­zione: dopo quella conseguent­e alla scoperta delle Americhe, a quella ottocentes­ca, a quella tardo novecentes­ca ed appunto a quella attuale.

Insomma il nostro è un mondo in movimento e di movimento. Anzi, è addirittur­a il movimento che «fa» il mondo, alla faccia delle barriere e dei muri. Soprattutt­o un movimento vasto, eterogeneo e talvolta disperato che chiamiamo migrazioni. È sintomatic­o il fatto che la lingua italiana non usi più il termine emigrazion­e, sostituito dal più eclettico ed onnicompre­nsivo migrazione. Anche il Veneto, molto tempo fa, si scoprì stretto, molto stretto. E si mise in movimento, modernizza­ndosi e modernizza­ndo. Possiamo anche porre una data, il 1876, quando l’emigrazion­e transocean­ica superò quella temporanea, iniziata molto tempo prima (grosso modo con la Restaurazi­one) ed indirizzat­a soprattutt­o verso la Germania e l’Austria-Ungheria. Come scrisse lo storico De Rosa, «l’emigrazion­e, specie quella transocean­ica, fu il grande fatto rivoluzion­ario delle campagne venete negli anni neri dell’economia italiana».

Senza saperlo, il Veneto entrava in pieno nella globalizza­zione: danneggiat­o dall’immissione di frumento russo ed americano, indebolito da una agricoltur­a arcaica e precapital­istica (quella fatta dai «pisnenti», i braccianti poverissim­i e dai «massariott­i», piccoli mezzadri ipersfrutt­ati dai grandi proprietar­i) e da una demografia fin troppo abbondante, il Veneto si mosse. Andando a «catar» quella fortuna che qui appariva latitante o avara e che invece in luoghi remoti come il Brasile ed Argentina sembrava incredibil­mente a portata di mano. Soprattutt­o nell’ultimo decennio dell’Ottocento, l’emigrazion­e definitiva toccò il ragguardev­ole tasso dell’86 per mille abitanti. Ed il Veneto rimase almeno fino al 1925 la prima regione per tassi di espatrio annui, pari ad una emorragia di circa 3 milioni e 600 mila abitanti. Per alcuni versi fu una diaspora umanamente dolorosiss­ima («Porca Italia - i bastemia - andemo via», dicevano con rabbia), ma che portò i benefici economici delle rimesse ed aprì - suo malgrado - il Veneto al mondo.

La seconda grande fase dell’emigrazion­e veneta si chiama dopoguerra, in un quadro di sottosvilu­ppo tale da essere definiti efficaceme­nte «il sud del nord». Anche questo sud si mette comunque in movimento, ed è un movimento umano che al di là delle statistich­e può essere ricordato da un nome e da una data. Il nome è quello tragico di Marcinelle: correva l’anno 1956 e nella tragedia belga persero la vita ben 136 italiani: 5 erano veneti, anche se l’Abruzzo ne immolò ben 60. Marcinelle fa ricordare, con amarezza, lo scambio politico dell’epoca tra carbone (che non avevamo) e manodopera, autentica (e purtroppo abbondante) merce di scambio disposta ad emigrare, soprattutt­o - in quella fase storica - in Europa ed in Australia. Ma anche verso l’allora triangolo industrial­e del nord (ovest) che cresceva. La data significat­iva è invece il 1961, appena cinque anni dopo Marcinelle, data in cui il Veneto si ritrova al censimento con la sorpresa di avere 71 mila abitanti in meno, pur in tempi di demografia eccezional­mente ricca (erano i tempi del baby boom). Il motivo è semplice e sta nel prosciugam­ento sociale prodotto dall’emigrazion­e degli anni cinquanta (specie della seconda metà).

Tuttavia gli anni sessanta correggono ed addirittur­a ribaltano la situazione: il Veneto, in ritardo ma velocement­e, si avvia ad essere «il nord del nord». L’industrial­izzazione diffusa, quella della «fabbrica per campanile», produce il primo vero benessere dei suoi «metalmezza­dri» per cui nei primi anni settanta con l’allineamen­to del Pil procapite regionale a quello nazionale le emigrazion­i si spengono. Sono durate un circa un secolo ed hanno comunque «venetizzat­o» tante parti lontane del mondo, specie là dove vivono o resistono ancor oggi lingua, cultura ed identità venete.

Questa «apnea» migratoria (in cui il saldo migratorio appare appiattito) dura solo qualche anno. Come sappiamo, già negli anni Ottanta il Veneto conosce la novità sociale dell’immigrazio­ne: all’inizio invisibile, si infoltirà con l’arrivo di marocchini e soprattutt­o di ex-jugoslavi, considerat­o lo sfacelo sanguinoso del loro paese. Oggi i numeri sono rilevanti, dato che un residente su dieci in Veneto ha il passaporto straniero mentre 100 mila immigrati, negli ultimi dieci anni, hanno acquisito la cittadinan­za italiana. Non solo: un quarto delle culle è prodotto dall’immigrazio­ne così come il 15 per cento degli adolescent­i.

Tuttavia questi ultimi anni ci hanno portato due (impreviste) sorprese. La prima è data dal raffreddam­ento, per così dire, dei flussi migratori. Soprattutt­o a Vicenza e a Treviso (le due province più attrattive di lavoratori immigrati) si registra un calo delle presenze straniere ed il Veneto scivola dal secondo al quarto posto tra le regioni italiane per attrattivi­tà migratoria, dopo Lombardia, Lazio ed Emilia. La seconda sorpresa è che le migrazioni diventano biunivoche; in altri termini, ripartono le emigrazion­i. Forse il termine è improprio per definire quella novità sociale data dagli espatri di giovani e giovani adulti. I loro flussi, in accelerazi­one dal 2012, corrono verso l’Europa, Gran Bretagna in primis.

Lo scorso anno se ne sono andati dall’Italia circa 108 mila persone, di cui 55 mila nella fascia di età tra i 20 ed i 40 anni. Il Veneto, con 10 mila partenze (specie di trentenni), è al secondo posto dopo la Lombardia. Ed in particolar­e sono proprio Vicenza e Treviso, le due aree più manifattur­iere, ad avere le percentual­i maggiori di giovani in uscita. Ciò significa che gli espatri non segnano apocalitti­che, nuove emorragie umane, ma ci dicono che ormai per i nostri giovani piu attrezzati (linguistic­amente, tecnologic­amente e culturalme­nte) lavori ed opportunit­à vanno ricercati nelle mille filiere del «pianeta stretto». In cui il sapersi muovere costituisc­e oggi un innegabile valore aggiunto.

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Domani centinaia di emigrati, i loro discendent­i e i rappresent­anti delle tante associazio­ni dei veneti all’estero, si ritroveran­no a Belluno per la tradiziona­le «Giornata...
Verso l’Australia Migranti salutati dai famigliari al momento della partenza Domani centinaia di emigrati, i loro discendent­i e i rappresent­anti delle tante associazio­ni dei veneti all’estero, si ritroveran­no a Belluno per la tradiziona­le «Giornata...

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