Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
«Sì al museo degli emigranti multimediale e in un capannone Mio nonno era brasiliano»
VENEZIA Fine ’800, oltre tre milioni e mezzo di veneti cercano fortuna oltreoceano. E poi, ancora, a fuggire la fame e le macerie del secondo dopoguerra, altri due milioni migrano, silenti, verso il resto d’Europa. Nella loro terra d’origine, però, non c’è un luogo che ne ricordi le gesta, come ha sottolineato Gian Antonio Stella dalle colonne del Corriere del Veneto alla vigilia della festa di oggi a Belluno dedicata agli emigranti e ai loro discendenti. Cinque milioni di veneti sparsi ai quattro angoli del mondo meritano un tributo: un museo dell’emigrazione veneta. La proposta per colmare un «vuoto» che non si spiega, è arrivata proprio da Stella: «glielo dobbiamo». Il presidente della Regione, Luca Zaia, raccoglie l’impegno e pare avere già le idee ben chiare.
Presidente, cosa pensa della proposta di realizzare un museo dell’emigrazione veneta? Ce ne sono, come ricorda Stella, persino a Gualdo Tadino in Umbria, a Salina nelle Eolie e così via...
«Penso sì a un museo ma con un taglio ben preciso. Niente di stantio o in stile amarcord, serve un museo improntato al multimediale. Insomma, un museo non analogico ma con una filosofia digitale. Per capirci, se dovrà esserci la stanza con le valigie di cartone, saranno solo a corredo della narrazione. Lo spazio vero sarà dedicato alla messa in rete di talenti che già c’è a livello internazionale. Cominciamo a contare quanti sono i discendenti di veneti che nel mondo hanno raggiunto posizioni apicali, non c’è solo il sindaco di Sidney».
Quindi è un sì al grande museo dell’emigrazione. La domanda è, chi lo finanzierà?
«Certo, l’investimento non sarà facile da trovare, ma voglio augurarmi almeno su questo tema di non incontrare le solite polemiche da due soldi. Iniziamo a pensarci, non sarà difficile individuare un
comitato scientifico capace. Quanto ai fondi, potremmo attivare un fund raising sullo stile di alcune comunità come quella ebraica per operazioni identitarie-culturali». Quanto alla collocazione?
«Considerato che dovrà essere un luogo vivo, fondamentale per l’educazione dei bimbi, e non un mausoleo inutile, si potrebbe fare in un capannone dismesso visto che si parla tanto di consumo di suolo oppure in un edificio che rientri nell’archeologia industriale da recuperare». Nessun dubbio che serva quindi...
«Mio nonno, morto nel 1996 a cent’anni, era nato il 5 maggio del 1896 a San Paolo in Brasile. In Italia ci arrivò dopo aver cercato fortuna anche a New York. Sono cresciuto ascoltando i suoi racconti, le storie di quella che è stata una vera epopea veneta oltreoceano. Arrivato in lacrime a Little Italy senza conoscere una parola di inglese gli si fece incontro in bambino con una mela, era un emigrante originario di Codognè, il paese della mia famiglia. I veneti
nel mondo si sono distinti per essere persone semplici, forse, ma oneste fino al midollo, timorate di Dio. Valori legati al nostro mondo contadino che forse noi abbiamo smarrito ma che nelle comunità venete all’estero sono ben saldi. E non parliamo di un fenomeno residuale, ci sono più oriundi veneti fuori dal Veneto che veneti in Veneto. Un popolo che ha affrontato le bonifiche a Latina, ad Arbonea, le miniere a Marcinelle, la selva attraverso cui farsi strada a forza di braccia in Brasile. Mio nonno mi raccontava di come si fossero dovuti conquistare spazi nella giungla senza mai tradire i due pilastri dell’essere veneti, l’onestà e la solidarietà».
Ci sarà spazio per l’emigrazione degli stranieri in Veneto ovvero per l’immigrazione?
«Il museo digitale deve diventare il contesto in cui si elaborano queste riflessioni. È necessario parlare seriamente, anche pensando all’oggi, di emigrazione. La nostra emigrazione e le migrazioni che toccano il Veneto, due storie in cui la religione gioca un ruolo». In che senso?
«Se l’essere quasi “bigotti” dei veneti all’estero, mi si passi il termine, animati da una grande rettitudine morale, ne ha fatti cittadini del mondo benvoluti, non posso non ripetere ciò che dico spesso “non tutti gli islamici sono terroristi ma tutti i terroristi sono islamici”. Non sono riuscito a vedere fino alla fine il video della decapitazione di un bimbo in Siria da parte di ragazzotti integralisti. E un museo dell’emigrazione potrebbe diventare un luogo di riflessione sulla religione e sull’alibi del proprio Dio a fronte di tante nefandezze. Un museo dell’emigrazione vivo e intelligente ci ricorderà cosa siamo stati, cosa siamo e cosa saremo, ribadendo quel modello di rettitudine che oggi a volte ci manca, che forse abbiamo perduto».