Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Vicenza città ingrata Non celebra i trent’anni dalla morte di Parise
La Vicenza «pettegola e ingrata», raccontata nel suo «Il prete bello» (1954), best seller da 300 mila copie, ora diventa ingrata. Non pare intenzionata a celebrare Goffredo Parise a trent’anni dalla sua scomparsa (Treviso, 31 agosto 1986).
Gli aveva concesso, nel 1984, la medaglia d’oro di cittadino benemerito, dedicato una scuola, finita accorpata in un altro istituto, ed ora stenta a trovargli una via, uno scorcio di giardino pubblico, una piazza a ricordo celebrativo del suo nome.
Il rapporto tra colui che sarebbe diventato giornalista e narratore di fama e la città che gli diede i natali (l’8 dicembre 1929, figlio di Ida Wanda Bertoli, e di un padre, pare un medico, rimasto sconosciuto), è sempre stato conflittuale. Il Veneto, «barbaro di muschi e nebbie», la «madre terra», come gli suggeriva Moravia, non gli era stata riconoscente e ospitale. Certo l’adolescenza vicentina era stata inquieta. Solo nel 1937, quando morì il nonno, la madre sposò il giornalista Osvaldo Parise (dal 1950 al 1957, direttore de Il Giornale di Vicenza). Dovette aspettare fino al compimento del 13.o anno per avere il cognome del padre adottivo.
«A scuola mi sono sempre annoiato moltissimo, una noia terribile – scrisse Parise che non sono riuscito a scrollarmi di dosso nemmeno al liceo. Per sottrarmi a un’atmosfera così opprimente inventavo un mucchio di bugie per le quali venivo poi regolarmente punito. Ma non ero un bugiardo nel senso comune della parola. Le mie bugie, infatti, non erano mai funzionali, non servivano a mascherare una realtà che volevo nascondere. Al contrario, le mie “invenzioni” tendevano a creare con la fantasia una realtà diversa, nella quale non mi sentissi più solo».
Un travagliato percorso scolastico lo portò all’università. A Padova studiò prima filosofia e poi due anni matematica. Trasferitosi con la famiglia a Venezia trovò finalmente il suo spazio. Gli era rimasto stretto l’aiuto del padre, che l’aveva indirizzato prima a fare esperienza presso un quotidiano di Bolzano, poi in un giornale di Verona. La vocazione dello scrittore lo accompagnò fino ai trent’anni. Nel 1953 pubblicò «La grande vacanza», e fu recensito da Eugenio Montale. Dal 1953 al 1960 fu revisore di manoscritti presso l’editore Garzanti a Milano. A Roma collaborò col regista Fellini alla produzione del film «Otto e mezzo». Sceneggiò «L’ape regina». Nel 1965 vinse il Viareggio con «Il padrone».
Il «Corriere d’Informazione» dedicava ogni fine settimana una pagina intera al «racconto del sabato». Vi pubblicavano Palazzeschi, Buzzati, Soldati, Pratolini, Flaiano, Campanile. Ogni tanto compariva un nome nuovo: nel 1955 appare quello di Parise. Divenne inviato, con importanti reportage, al «Corriere della Sera» dal Biafra (dove incontrò la delicatezza della povertà) alla Cina, dal Vietnam al Cile dove seguì il golpe che destituì Allende, alla ricerca del mito del Che Guevara. Con «Amore, Bellezza, Dolcezza» Parise dialoga nel suo «Sillabario dei sentimenti degli uomini». Ebbe un amore breve per Lucia Bosè. Di sé diceva: «Ho imparato l’arte da Comisso e la vita da Moravia». Quel Giovanni Comisso, che, con affetto, lo chiamava «gaglioffo». Aveva grande riverenza di Guido Piovene, vicentino come lui, che tornò a presentare alla rinnovata libreria «Do rode» di Virgilio Scapin. Mantenne amicizia fervida con Fernando Bandini, intensi rapporti con Neri Pozza.
Giosetta Fioroni, pittrice, che gli fu compagna per oltre vent’anni, accenna così il loro primo incontro, a Roma: «Ricordo i capelli neri, le mani bellissime, lo sguardo acuto, indagatore di inesauribile curiosità. Una notevolissima, scontrosa e affascinante prepotenza denotava il suo carattere… Goffredo aveva 33 anni ed io 30 ed eravamo stati entrambi sposati. Da allora è cominciata la nostra vita comune. Spostamenti, luoghi amati e abitati. Molti problemi certamente, ma la sua personalità, artista così autentico e raro, ha segnato nella vitalità e nell’amore tutta la nostra vita». Giosetta Fioroni ora vuole celebrare nelle prossime settimane il suo «Edo». Non lo fa a Vicenza, ha preferito Mantova, dal 4 settembre, al XX Festival della Letteratura. Eppure la città, se non gli era rimasta nel cuore, certamente era impressa nella sua mente. Non c’è racconto o romanzo che non l’abbia avuta protagonista. Era il suo sogno. Le grigie colonne palladiane in lunghe e alte file come d’alberi della foresta malese, la piazza, il passato. La guerra soprattutto, e gli attimi potenti di emozioni giovanili.
Una terra madre dove, per Parise, c’è sempre da deplorare l’indifferenza degli intellettuali.