Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Cuochi, barbieri operai: 400 profughi assunti in Veneto
Partiti i primi collocamenti. Ma c’è il nodo dello status
VENEZIA Sono quattrocento i profughi assunti in Veneto con contratti a tempo determinato e indeterminato. Impiegati nelle più diverse professioni: cuochi, barbieri, operai, verniciatori, agricoltori. «Hanno un permesso ad hoc», spiegano gli operatori, in attesa del riconoscimento dello status.
VENEZIA Da una parte la noia e l’esasperazione, loro e delle comunità che li ospitano, per dover stare tutto il giorno a oziare. Magari con un titolo di studio in tasca. Dall’altra l’affanno delle cooperative impegnate nell’accoglienza che dallo Stato avanzano ancora sei mesi di contributi (i famosi 35 euro al giorno a migrante), cioè circa 50 milioni di euro. In mezzo la soluzione: cominciamo a far lavorare i profughi, in attesa dello status di rifugiato. Detto fatto: sui 14.271 richiedenti asilo presenti in Veneto circa 400 hanno ottenuto un contratto a tempo determinato, indeterminato, part-time o di formazione da aziende del territorio. Altri 350 stanno affrontando il tirocinio. Anche attraverso la mediazione delle associazioni di categoria.
I canali di assunzione sono tre: la Caritas, con il progetto «Rifugiato a casa mia», le stesse cooperative e gli Sprar, ovvero il Sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati finanziato dal ministero dell’Interno che dai sette capoluoghi, a partire dal 2015, ha cominciato a espandersi in provincia (come a Cittadella, dove hanno trovato lavoro in tre: due fanno i pizzaioli, una ragazza è parrucchiera). «I migranti accolti negli Sprar del Veneto, inizialmente forti di un totale di 120/130 posti oggi saliti a 250 e che a breve raddoppieranno, sono stati i primi a trovare impiego — spiega Roberto Tuninetti, coordinatore del «Progetto Rondine» per conto della «Co.Ge.S.» di Padova —. Dal 2009 sono stati stretti accordi con 11 associazioni dell’imprenditoria, per garantire tirocini in azienda con la prospettiva dell’inserimento lavorativo. Il 35% dei soggetti coinvolti trova un posto nella regione, un altro 35%-40% nel resto d’Italia o all’estero, su proposte che arrivano durante l’apprendistato, e un 25% resta disoccupato perchè ha difficoltà o è svogliato. Solo a Padova negli ultimi sette anni hanno ottenuto un contratto, a tempo determinato, indeterminato o part-time, 350 profughi». A Treviso altri venti migranti percepiscono regolare stipendio come cuochi, agricoltori, allevatori, barbieri, operai, baristi, camerieri e verniciatori grazie al progetto Caritas «Rifugiato a casa mia». «Sono ragazzi africani — racconta don Marino Callegari, coordinatore regionale Caritas — ai quali si aggiungono tre giovani diventati agricoltori a Chioggia e altri contattati da aziende veneziane per mansioni di facchinaggio e manovalanza. Noi li prepariamo con corsi d’italiano e stage e quando ottengono un impiego retribuito escono dal sistema d’accoglienza e diventano autonomi». Nel Vicentino 200 profughi e a Padova 4 migranti seguiti da Caritas stanno seguendo tirocini formativi.
Ma come fanno a lavorare senza lo status di rifugiato? «Ottengono un permesso di soggiorno ad hoc che dura due anni — spiega don Luca Favarin, che con «Percorso vita onlus» (ecco la terza via delle coop) accoglie e fa lavorare decine di stranieri —. Noi abbiamo un ristorante e un bar a Padova e i primi migranti li abbiamo assunti nel 2015, per altri abbiamo agevolato l’inserimento in ditte di servizi, stoccaggio e pulizie, in cucine e comunità sociali, anche attraverso Regione e Provincia. Oggi sono in 15, provenienti da Gambia, Mali, Nigeria e Guinea Bissau, ad avere un contratto, ma altri inserimenti in aziende agricole e meccaniche sono in corso. La nostra proposta è bypassare le commissioni prefettizie per quelli già in grado di parlare l’italiano e con un posto stabile, arrivando al permesso di soggiorno». Ecco il problema. «I profughi possono cominciare a lavorare dopo tre mesi dall’arrivo in Italia — spiega Paolo Tosato di Confcooperative Veneto — ma se poi, dopo un anno e mezza di attesa, la loro richiesta di asilo viene respinta, devono lasciare il posto, anche se a tempo indeterminato, e tornare in patria. E’ un’assurdità, a quel punto il migrante è integrato e il datore di lavoro ha investito in lui, pure in termini di formazione. L’unica via è fare ricorso, sperando venga accolto, ma è un nodo che lo Stato deve affrontare». «E’ un tema recente, che però sta esplodendo — conferma Loris Cervato, responsabile del Sociale per Confcooperative — noi abbiamo profughi al lavoro anche a Verona, Rovigo e a Treviso». «La via dell’occupazione per i migranti è la più corretta e va incrementata, anche a beneficio delle comunità ospitanti — avverte Giovanni Manildo, sindaco di Treviso —. L’ozio è deleterio per tutti».