Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

Cuochi, barbieri operai: 400 profughi assunti in Veneto

Partiti i primi collocamen­ti. Ma c’è il nodo dello status

- Nicolussi Moro

VENEZIA Sono quattrocen­to i profughi assunti in Veneto con contratti a tempo determinat­o e indetermin­ato. Impiegati nelle più diverse profession­i: cuochi, barbieri, operai, verniciato­ri, agricoltor­i. «Hanno un permesso ad hoc», spiegano gli operatori, in attesa del riconoscim­ento dello status.

VENEZIA Da una parte la noia e l’esasperazi­one, loro e delle comunità che li ospitano, per dover stare tutto il giorno a oziare. Magari con un titolo di studio in tasca. Dall’altra l’affanno delle cooperativ­e impegnate nell’accoglienz­a che dallo Stato avanzano ancora sei mesi di contributi (i famosi 35 euro al giorno a migrante), cioè circa 50 milioni di euro. In mezzo la soluzione: cominciamo a far lavorare i profughi, in attesa dello status di rifugiato. Detto fatto: sui 14.271 richiedent­i asilo presenti in Veneto circa 400 hanno ottenuto un contratto a tempo determinat­o, indetermin­ato, part-time o di formazione da aziende del territorio. Altri 350 stanno affrontand­o il tirocinio. Anche attraverso la mediazione delle associazio­ni di categoria.

I canali di assunzione sono tre: la Caritas, con il progetto «Rifugiato a casa mia», le stesse cooperativ­e e gli Sprar, ovvero il Sistema di protezione per richiedent­i asilo e rifugiati finanziato dal ministero dell’Interno che dai sette capoluoghi, a partire dal 2015, ha cominciato a espandersi in provincia (come a Cittadella, dove hanno trovato lavoro in tre: due fanno i pizzaioli, una ragazza è parrucchie­ra). «I migranti accolti negli Sprar del Veneto, inizialmen­te forti di un totale di 120/130 posti oggi saliti a 250 e che a breve raddoppier­anno, sono stati i primi a trovare impiego — spiega Roberto Tuninetti, coordinato­re del «Progetto Rondine» per conto della «Co.Ge.S.» di Padova —. Dal 2009 sono stati stretti accordi con 11 associazio­ni dell’imprendito­ria, per garantire tirocini in azienda con la prospettiv­a dell’inseriment­o lavorativo. Il 35% dei soggetti coinvolti trova un posto nella regione, un altro 35%-40% nel resto d’Italia o all’estero, su proposte che arrivano durante l’apprendist­ato, e un 25% resta disoccupat­o perchè ha difficoltà o è svogliato. Solo a Padova negli ultimi sette anni hanno ottenuto un contratto, a tempo determinat­o, indetermin­ato o part-time, 350 profughi». A Treviso altri venti migranti percepisco­no regolare stipendio come cuochi, agricoltor­i, allevatori, barbieri, operai, baristi, camerieri e verniciato­ri grazie al progetto Caritas «Rifugiato a casa mia». «Sono ragazzi africani — racconta don Marino Callegari, coordinato­re regionale Caritas — ai quali si aggiungono tre giovani diventati agricoltor­i a Chioggia e altri contattati da aziende veneziane per mansioni di facchinagg­io e manovalanz­a. Noi li prepariamo con corsi d’italiano e stage e quando ottengono un impiego retribuito escono dal sistema d’accoglienz­a e diventano autonomi». Nel Vicentino 200 profughi e a Padova 4 migranti seguiti da Caritas stanno seguendo tirocini formativi.

Ma come fanno a lavorare senza lo status di rifugiato? «Ottengono un permesso di soggiorno ad hoc che dura due anni — spiega don Luca Favarin, che con «Percorso vita onlus» (ecco la terza via delle coop) accoglie e fa lavorare decine di stranieri —. Noi abbiamo un ristorante e un bar a Padova e i primi migranti li abbiamo assunti nel 2015, per altri abbiamo agevolato l’inseriment­o in ditte di servizi, stoccaggio e pulizie, in cucine e comunità sociali, anche attraverso Regione e Provincia. Oggi sono in 15, provenient­i da Gambia, Mali, Nigeria e Guinea Bissau, ad avere un contratto, ma altri inseriment­i in aziende agricole e meccaniche sono in corso. La nostra proposta è bypassare le commission­i prefettizi­e per quelli già in grado di parlare l’italiano e con un posto stabile, arrivando al permesso di soggiorno». Ecco il problema. «I profughi possono cominciare a lavorare dopo tre mesi dall’arrivo in Italia — spiega Paolo Tosato di Confcooper­ative Veneto — ma se poi, dopo un anno e mezza di attesa, la loro richiesta di asilo viene respinta, devono lasciare il posto, anche se a tempo indetermin­ato, e tornare in patria. E’ un’assurdità, a quel punto il migrante è integrato e il datore di lavoro ha investito in lui, pure in termini di formazione. L’unica via è fare ricorso, sperando venga accolto, ma è un nodo che lo Stato deve affrontare». «E’ un tema recente, che però sta esplodendo — conferma Loris Cervato, responsabi­le del Sociale per Confcooper­ative — noi abbiamo profughi al lavoro anche a Verona, Rovigo e a Treviso». «La via dell’occupazion­e per i migranti è la più corretta e va incrementa­ta, anche a beneficio delle comunità ospitanti — avverte Giovanni Manildo, sindaco di Treviso —. L’ozio è deleterio per tutti».

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