Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Jihad, il video-selfie dei kosovari espulsi «Qualcuno ci aiuti a tornare in Italia»
Si dichiarano innocenti. E intanto la procura punta i fari sulle aggressioni di uno dei terroristi arrestati
VENEZIA «Siamo innocenti. Vogliamo tornare in Italia perché non abbiamo fatto niente. Non sappiamo come fare, qualcuno ci aiuti». Sono rientrati in Kosovo da un paio di giorni, le case delle loro famiglie distano appena tredici chilometri e ieri mattina Arxhend Bekaj e Mergim Gecaj, entrambi espulsi dall’Italia perché indagati nell’ambito dell’inchiesta della procura di Venezia che giovedì scorso ha portato all’arresto di quattro presunti terroristi prossimi a compiere un attentato sul ponte di Rialto, si sono incontrati.
Hanno trascorso qualche ora insieme per decidere il da farsi e hanno girato un video per difendersi dalle accuse e lanciare un appello: «Qualcuno ci dia una mano a tornare in Italia – dicono -. Cerchiamo un avvocato che ci aiuti». Continuano a ripetere: «Non siamo terroristi». Secondo gli investigatori entrambi, insieme a un terzo indagato, Idriz Haziraj (anche lui espulso), avrebbero partecipato agli incontri della cellula jihadista in cui si pregava, si leggeva il Corano e si guardavano video di combattimenti e tutorial su come uccidere con un coltello. Del gruppo, composto dal leader Arjan Babaj, da Dake Haziraj e Fisnik Bekaj, che sono stati arrestati, faceva parte anche un 17enne, anche lui in carcere. Pare dovesse essere proprio il minorenne a farsi esplodere. Per Mergim e Arxhend, però, non c’era alcun piano.
«In questo caso, come negli ultimi attacchi, il passaggio dalla progettazione alla realizzazione poteva essere molto rapido, anche perché i mezzi usati negli ultimi attacchi non sono complessi da acquisire», dice il prefetto di Venezia Carlo Boffi. Gli investigatori hanno sequestrato telefoni e computer. «L’unica cosa che avevo nel telefono era un programma per leggere il Corano», dice Mergim. Lui e Arxhend sono arrivati in Italia quattro anni fa. Il primo faceva il parrucchiere, Arxhend il cameriere. «Abbiamo sempre lavorato per portare a casa i soldi per le nostre famiglie, cosa facciamo adesso? - si chiedono -. Nessuno degli altri ha mai avuto comportamenti strani». Tranne Dake. La procura di Venezia sta cercando di fare luce sul suo passato e su quello degli altri membri. Dake ha subìto una denuncia da parte del suo titolare nel 2015 per minacce. Gli sviluppi investigativi attuali, però, hanno portato alla luce un’altra aggressione. La denuncia, che risale a luglio del 2014 ed è stata presentata da un veneziano di 51 anni. L’uomo stava camminando in Calle Casselleria, zona in cui lavorava Dake. Stando agli atti, Dake avrebbe mal percepito uno sguardo da parte del veneziano e sarebbe uscito con un mattarello in mano per colpirlo, rompendogli il naso. In quell’occasione il 51enne aveva spiegato ai carabinieri di aver notato una «tecnica dell’aggressione» da parte di Dake, quasi sembrasse addestrato a combattere. E questo, secondo gli investigatori, spiegherebbe i viaggi in Siria che Dake, oltre a Babaj, avrebbe compiuto.
Dake era tornato con delle ferite che al suo avvocato ha detto di essersi procurato cadendo a Venezia. Diversa, invece, la versione fornita a Mergim e Arxhend. «Ci ha detto che si era fatto male in cantiere, facendo l’operaio a Milano – concludono -. Non è mai stato in Siria. Era andato in Austria a cercare lavoro e come lui anche Arjan, ma, poi, non avendolo trovato erano tornati». Le indagini stanno proseguendo e, intanto, i vertici della sicurezza si preparano a tenere gli occhi aperti in occasione della Pasqua. I controlli saranno raddoppiati, a partire dalla videosorveglianza. «In questi fenomeni l’occhio sulle cose è fondamentale – conclude Boffi – che sia quello del vicino, elettronico o del connazionale poco importa. Essere cittadini consapevoli può cambiare tutto. Abbiamo in questo senso prove evidenti della difficoltà a reclutare stranieri per azioni estremiste. A Venezia gli stranieri sono i primi a non volerle queste azioni».
Mergim Gecaj L’unica cosa che avevo nel telefono è un programma per leggere il Corano. Eravamo lì solo per lavorare