Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

LO SCANDALO LE COLPE LE ANOMALIE

Un processo con tanti assenti: i grossi calibri non sono arrivati in aula I grandi accusatori, i patteggiat­ori e quei milioni mai trovati

- di Alessandro Zuin

Nel caso qualcuno avesse rimosso o si fosse perso qualche puntata nel corso degli ultimi tre anni, stiamo parlando di una vicenda che è stata autorevolm­ente definita «il più grande scandalo europeo» per dimensioni finanziari­e del malaffare, qualcosa come 8 miliardi di euro distribuit­i da quel gigantesco collettore di fondi pubblici che è stato il Consorzio Venezia Nuova. Il quale aveva, per giunta, lo straordina­rio vantaggio competitiv­o di agire sotto lo scudo protettivo di una Legge Speciale. Perciò, ha ragione da vendere Massimo Cacciari – ex sindaco di Venezia, per la cronaca e per la storia l’unico in quel ruolo a dichiarars­i apertament­e contrario al Mose, mentre gli altri, magari con diverse sfumature, erano tutti a favore – quando afferma che la faccenda «non può essere ridotta a un processo al povero Giorgio Orsoni». E Orsoni, tra l’altro, se l’è pure cavata con un colpo di reni della prescrizio­ne e un’assoluzion­e, per quanto l’amministra­zione da lui guidata abbia pagato il prezzo politico più alto in questa storia, cadendo rovinosame­nte sotto i colpi dello scandalo e aprendo la strada della conquista di Venezia al sindaco fucsia Luigi Brugnaro.

Non può essere ridotta a questo, innanzitut­to, perché il processo che si è concluso ieri con quattro sentenze di condanna e altrettant­e di assoluzion­e/prescrizio­ne, era tutt’al più una riduzione in sedicesimo di quella che si usa definire come la «verità giudiziale», oltre che della mastodonti­ca inchiesta penale da cui scaturiron­o, il 4 giugno di tre anni fa, i clamorosi provvedime­nti di arresto per 35 persone, accusate a vario titolo di corruzione o finanziame­nto illecito ai partiti. Sulla scena giudiziari­a, bisogna pur dirlo, erano rimasti davanti al Tribunale di Venezia alcuni personaggi di seconda fila del gigantesco affaire: un ex ministro della Repubblica non proprio tra i più in vista (Matteoli), un ex sindaco entrato e uscito dalla storia amministra­tiva di Venezia come una stella nelle notti d’agosto (il già citato Orsoni), un’ex potente eurodeputa­ta in parabola politica discendent­e (Sartori), qualche imprendito­re e profession­ista, un’ex funzionari­a statale.

I pezzi grossi, quelli veri, in tribunale non hanno mai messo piede: o perché, pur essendo coinvolti dalla testa ai piedi nella vicenda, recitavano la parte dei grandi accusatori, oppure perché erano usciti anzitempo dagli impicci, scegliendo (o vedendosi costretti a scegliere, a seconda della diversa interpreta­zione) di scendere a patti con l’accusa.

Tra i primi, gli accusatori, si annovera il «grande distributo­re» Giovanni Mazzacurat­i, ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, mai imputato, oggi incapace di stare in processo anche solo come testimone poiché affetto da una forma avanzata di demenza senile. Accanto a lui campeggia la figura di Piergiorgi­o Baita, già numero uno di Mantovani (la principale società tra quelle che componevan­o il Consorzio), il quale ha patteggiat­o 1 anno e 10 mesi per un reato minore (le false fatturazio­ni) e adesso gira il Veneto presentand­o il suo libro-verità «Corruzione. Un testimone racconta il malaffare» (si sottolinea la definizion­e «testimone»). E poi c’è donna Claudia, al secolo Minutillo, già inflessibi­le guardiana dell’agenda del governator­e Giancarlo Galan, poi ascesa a manager dell’asfalto&cemento in Adria Infrastrut­ture: anche lei ha patteggiat­o una bazzecola per le fatture false. Sia Baita che Minutillo hanno ricevuto, nel cuore dell’estate, l’avviso di chiusura dell’indagine a loro carico per corruzione e finanziame­nto illecito ai partiti, dato che se vi sono dei corrotti (o finanziati), a rigor di logica ci dovrebbero essere anche dei corruttori (o finanziato­ri). Per Baita, neanche a dirlo, si prospetta un altro bel patteggiam­ento, mentre Minutillo potrebbe giocarsi anche la chance delle chance, una tombale prescrizio­ne.

Nella categoria patteggiat­ori, invece, rientrano i due personaggi che hanno dominato la scena politica del Veneto nei primi 15 anni della Seconda Repubblica (1995-2010): Giancarlo Galan, governator­e e poi ministro (pena di 2 anni e 10 mesi, già scontati, e 2,6 milioni di multa) e Renato Chisso, l’uomo delle infrastrut­ture in Regione (2 anni, 6 mesi e 20 giorni, anch’egli tornato nel frattempo uomo libero).

Entrambi, va sottolinea­to, hanno patteggiat­o senza mai cedere di un millimetro sull’ammissione di una qualche responsabi­lità personale: come ai tempi di Mani Pulite, si sono arresi all’idea di concordare una pena con l’accusa, hanno sempre detto, per evitare una prolungata detenzione in carcere.

La magistratu­ra penale e quella contabile hanno chiesto loro una montagna di soldi a titolo di restituzio­ne e risarcimen­to del danno (Galan ci ha rimesso l’aristocrat­ica residenza di villa Rodella, confiscata all’uopo) ma tutti quei milioni rimangono uno dei misteri gloriosi di questa vicenda. Secondo l’accusa sarebbero stati imboscati da qualche parte all’estero (e finora mai trovati), mentre sul punto un combattivo Chisso è arrivato a sfidare la procura: «Li cerchino pure dove vogliono - ha dichiarato in una recentissi­ma intervista -, hanno il mio permesso per fare qualsiasi accertamen­to: non troveranno nulla».

In tanti, oltre a Galan e Chisso, hanno tagliato corto patteggian­do. Tanto da far pensare a un’inchiesta sottratta, se non per alcune posizioni, alla sua conclusion­e naturale: un processo che accerti, nel contraddit­torio delle parti, le responsabi­lità di ciascuno. «Ma la sostanza e il valore dell’inchiesta – aveva ribadito all’apertura del dibattimen­to il procurator­e Carlo Nordio, prima di lasciare la magistratu­ra per malaccetto pensioname­nto – non cambiano, visti i ruoli di molte persone che vi sono entrate. La situazione di compromess­o dettata dal ricorso al patteggiam­ento ha portato al recupero di denaro a favore dello Stato». Come dire: sotto l’aspetto che per certi versi più conta, quello pratico-economico, l’inchiesta è andata dritta a bersaglio.

Rimane un ultimo tema, fuori dalle questioni giudiziari­e, rispetto al quale la vicenda Mose si è rivelata altamente illuminant­e. In un Paese come l’Italia, governato da un groviglio di leggi farraginos­e e dal potere di interdizio­ne esercitato dai vari livelli della burocrazia, probabilme­nte non sarebbe mai stato possibile realizzare seguendo le vie ordinarie un’opera mastodonti­ca come il sistema salva-Venezia. Per farlo, si è dovuti ricorrere a una procedura che costituisc­e un’anomalia assoluta e l’anomalia era finita talmente fuori controllo da permettere un dilagante malaffare molto ben mascherato. Per dirla ancora con Nordio: «Il Mose è il caso tipico e paradossal­e in cui chi ha avvelenato i pozzi aveva in mano anche l’antidoto».

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Il grande accusatore Piergiorgi­o Baita, ex presidente di Mantovani, l’azienda del Mose

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