Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
LO SCANDALO LE COLPE LE ANOMALIE
Un processo con tanti assenti: i grossi calibri non sono arrivati in aula I grandi accusatori, i patteggiatori e quei milioni mai trovati
Nel caso qualcuno avesse rimosso o si fosse perso qualche puntata nel corso degli ultimi tre anni, stiamo parlando di una vicenda che è stata autorevolmente definita «il più grande scandalo europeo» per dimensioni finanziarie del malaffare, qualcosa come 8 miliardi di euro distribuiti da quel gigantesco collettore di fondi pubblici che è stato il Consorzio Venezia Nuova. Il quale aveva, per giunta, lo straordinario vantaggio competitivo di agire sotto lo scudo protettivo di una Legge Speciale. Perciò, ha ragione da vendere Massimo Cacciari – ex sindaco di Venezia, per la cronaca e per la storia l’unico in quel ruolo a dichiararsi apertamente contrario al Mose, mentre gli altri, magari con diverse sfumature, erano tutti a favore – quando afferma che la faccenda «non può essere ridotta a un processo al povero Giorgio Orsoni». E Orsoni, tra l’altro, se l’è pure cavata con un colpo di reni della prescrizione e un’assoluzione, per quanto l’amministrazione da lui guidata abbia pagato il prezzo politico più alto in questa storia, cadendo rovinosamente sotto i colpi dello scandalo e aprendo la strada della conquista di Venezia al sindaco fucsia Luigi Brugnaro.
Non può essere ridotta a questo, innanzitutto, perché il processo che si è concluso ieri con quattro sentenze di condanna e altrettante di assoluzione/prescrizione, era tutt’al più una riduzione in sedicesimo di quella che si usa definire come la «verità giudiziale», oltre che della mastodontica inchiesta penale da cui scaturirono, il 4 giugno di tre anni fa, i clamorosi provvedimenti di arresto per 35 persone, accusate a vario titolo di corruzione o finanziamento illecito ai partiti. Sulla scena giudiziaria, bisogna pur dirlo, erano rimasti davanti al Tribunale di Venezia alcuni personaggi di seconda fila del gigantesco affaire: un ex ministro della Repubblica non proprio tra i più in vista (Matteoli), un ex sindaco entrato e uscito dalla storia amministrativa di Venezia come una stella nelle notti d’agosto (il già citato Orsoni), un’ex potente eurodeputata in parabola politica discendente (Sartori), qualche imprenditore e professionista, un’ex funzionaria statale.
I pezzi grossi, quelli veri, in tribunale non hanno mai messo piede: o perché, pur essendo coinvolti dalla testa ai piedi nella vicenda, recitavano la parte dei grandi accusatori, oppure perché erano usciti anzitempo dagli impicci, scegliendo (o vedendosi costretti a scegliere, a seconda della diversa interpretazione) di scendere a patti con l’accusa.
Tra i primi, gli accusatori, si annovera il «grande distributore» Giovanni Mazzacurati, ex presidente del Consorzio Venezia Nuova, mai imputato, oggi incapace di stare in processo anche solo come testimone poiché affetto da una forma avanzata di demenza senile. Accanto a lui campeggia la figura di Piergiorgio Baita, già numero uno di Mantovani (la principale società tra quelle che componevano il Consorzio), il quale ha patteggiato 1 anno e 10 mesi per un reato minore (le false fatturazioni) e adesso gira il Veneto presentando il suo libro-verità «Corruzione. Un testimone racconta il malaffare» (si sottolinea la definizione «testimone»). E poi c’è donna Claudia, al secolo Minutillo, già inflessibile guardiana dell’agenda del governatore Giancarlo Galan, poi ascesa a manager dell’asfalto&cemento in Adria Infrastrutture: anche lei ha patteggiato una bazzecola per le fatture false. Sia Baita che Minutillo hanno ricevuto, nel cuore dell’estate, l’avviso di chiusura dell’indagine a loro carico per corruzione e finanziamento illecito ai partiti, dato che se vi sono dei corrotti (o finanziati), a rigor di logica ci dovrebbero essere anche dei corruttori (o finanziatori). Per Baita, neanche a dirlo, si prospetta un altro bel patteggiamento, mentre Minutillo potrebbe giocarsi anche la chance delle chance, una tombale prescrizione.
Nella categoria patteggiatori, invece, rientrano i due personaggi che hanno dominato la scena politica del Veneto nei primi 15 anni della Seconda Repubblica (1995-2010): Giancarlo Galan, governatore e poi ministro (pena di 2 anni e 10 mesi, già scontati, e 2,6 milioni di multa) e Renato Chisso, l’uomo delle infrastrutture in Regione (2 anni, 6 mesi e 20 giorni, anch’egli tornato nel frattempo uomo libero).
Entrambi, va sottolineato, hanno patteggiato senza mai cedere di un millimetro sull’ammissione di una qualche responsabilità personale: come ai tempi di Mani Pulite, si sono arresi all’idea di concordare una pena con l’accusa, hanno sempre detto, per evitare una prolungata detenzione in carcere.
La magistratura penale e quella contabile hanno chiesto loro una montagna di soldi a titolo di restituzione e risarcimento del danno (Galan ci ha rimesso l’aristocratica residenza di villa Rodella, confiscata all’uopo) ma tutti quei milioni rimangono uno dei misteri gloriosi di questa vicenda. Secondo l’accusa sarebbero stati imboscati da qualche parte all’estero (e finora mai trovati), mentre sul punto un combattivo Chisso è arrivato a sfidare la procura: «Li cerchino pure dove vogliono - ha dichiarato in una recentissima intervista -, hanno il mio permesso per fare qualsiasi accertamento: non troveranno nulla».
In tanti, oltre a Galan e Chisso, hanno tagliato corto patteggiando. Tanto da far pensare a un’inchiesta sottratta, se non per alcune posizioni, alla sua conclusione naturale: un processo che accerti, nel contraddittorio delle parti, le responsabilità di ciascuno. «Ma la sostanza e il valore dell’inchiesta – aveva ribadito all’apertura del dibattimento il procuratore Carlo Nordio, prima di lasciare la magistratura per malaccetto pensionamento – non cambiano, visti i ruoli di molte persone che vi sono entrate. La situazione di compromesso dettata dal ricorso al patteggiamento ha portato al recupero di denaro a favore dello Stato». Come dire: sotto l’aspetto che per certi versi più conta, quello pratico-economico, l’inchiesta è andata dritta a bersaglio.
Rimane un ultimo tema, fuori dalle questioni giudiziarie, rispetto al quale la vicenda Mose si è rivelata altamente illuminante. In un Paese come l’Italia, governato da un groviglio di leggi farraginose e dal potere di interdizione esercitato dai vari livelli della burocrazia, probabilmente non sarebbe mai stato possibile realizzare seguendo le vie ordinarie un’opera mastodontica come il sistema salva-Venezia. Per farlo, si è dovuti ricorrere a una procedura che costituisce un’anomalia assoluta e l’anomalia era finita talmente fuori controllo da permettere un dilagante malaffare molto ben mascherato. Per dirla ancora con Nordio: «Il Mose è il caso tipico e paradossale in cui chi ha avvelenato i pozzi aveva in mano anche l’antidoto».