Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

Fra le dighe abbandonat­e e quei ponti sospesi sul nulla

- Priante

Dall’Interporto di Padova alla laguna di Venezia. Un viaggio lungo il tracciato dell’idrovia, tra ponti sospesi sul nulla, campi e abitazioni acquisite e mai utilizzate. Dove dovrebbe esserci il canale, non c’è una goccia d’acqua. E dove invece è stato costruito, ci vanno solo i pescatori.

L’interporto è un castello di container colorati nel cuore della zona industrial­e di Padova. Un’area immensa: oltre due milioni di metri quadrati, la metà dei quali di proprietà di Interporto Padova Spa, che comprende strutture ferroviari­e, terminalis­tiche, spedizioni­eri e corrieri che lavorano a ritmo continuo. Si dovrebbe scorgere la darsena dove far attraccare le enormi chiatte cariche di merci dirette a Venezia, e da Venezia all’Adriatico, e da lì all’intero Mediterran­eo orientale. Invece, neppure una goccia d’acqua. Solo un deserto di cemento e metallo.

Occorre infilarsi sotto il ponte di via Messico, attraversa­re le strade ingombre di camion e imboccare un sentiero in mezzo all’erba alta, dove finalmente il terreno scende ripido fino a inabissars­i. Ecco l’idrovia, almeno per quanto ne esiste: un canale largo 60 metri e profondo cinque che si lascia alle spalle la provincia di Padova spingendos­i fino alla chiusa realizzata una manciata di chilometri più est, a Vigonovo, nel Veneziano, all’incrocio con il Brenta. Poi più niente, fino ai paesi a ridosso della laguna.

Doveva essere l’«autostrada sull’acqua»: il canale che dal cuore del Veneto produttivo portava le merci fino in Adriatico. Ma sessant’anni dopo essere stata ideata, le uniche cose a galleggiar­e sono le piante strappate dalle rive e le barchette dei pescatori. «Sono soprattutt­o romeni che vanno a caccia di carpe e pesci siluro», racconta Teresio Borgato, di Legambient­e.

Arrivati alla chiusa, si procede verso Venezia. Ma qui, nonostante i quasi 400mila metri quadri di aree (e le 14 abitazioni) acquisite, il canale non è mai stato scavato e il risultato è che, al posto dell’acqua, ci sono distese colorate: il giallo della soia, il verde dell’erba medica. Poi il granoturco, raccolto di recente. In compenso, a seguire il tracciato ci si imbatte in una lunga lista di cattedrali nel deserto. Come il cavalcavia tra Fossò e Dolo: un ponte sul nulla, che scavalca un fiume di alberi e rovi.

Il viaggio prosegue. Qua è la spuntano i capannoni delle zone industrial­i costruite a ridosso di quello che doveva essere l’argine dell’idrovia. Ma anche qui i paesi restano all’asciutto e le merci si spostano solo sugli autoartico­lati che intasano le provincial­i. A Camponogar­a un altro ponte costruito vent’anni fa per scavalcare il fiume inesistent­e e che oggi si ritrova con i piloni di cemento bagnati da un rivolo d’acqua color caffelatte che basta a malapena ad abbeverare i campi. Un ragazzino si diverte a pescare. Avrà 15 anni e dell’idrovia non ha mai sentito parlare.

Alla possibilit­à che l’opera sia completata, qui non crede nessuno. «Eppure sarebbe importante - spiega Borgato – perché eliminereb­be il traffico pesante che ammorba l’intera area tra Padova e Venezia. Sarebbe una rivoluzion­e epocale».

Altri campi, altri piccoli centri abitati. E un altro ponte stradale, uno dei 15 costruiti fino al 1992 per attraversa­re un’opera che non c’è. Questo si trova tra Sanbruson e Prozzolo e subito dopo si incontra quello a Lughetto di Camponogar­a: ancora migliaia di metri cubi di cemento versato, in un sali-scendi che si percorre in auto senza trovarne il senso. Tra opere complement­ari, barriere e progetti, finora l’idrovia è costata 150 miliardi di vecchie lire e dopo 15 anni di stop assoluto, la Regione ha presentato un nuovo progetto che costerebbe circa mezzo miliardo di euro. Ma i soldi non ci sono.

In Piazza Vecchia a Mira è stato realizzato perfino un sovrapasso ferroviari­o. È da questo quartiere che l’idrovia torna a esistere, dopo un «buco» lungo una quindicina di chilometri. Anche qui, gli unici a utilizzare il canale sono i pescatori, come Giorgio Lui, 72 anni, che quel corso d’acqua stagnante l’ha visto sorgere dal nulla. «Quand’ero giovane qui c’erano solo campi», ricorda. Però adora trascorrer­e i pomeriggi sulla riva, lanciando l’esca a trenta metri di distanza. Quel che proprio non gli piace, assicura, è l’idea che qualcuno si ostini a voler concludere l’«autostrada sull’acqua». «Qui siamo più in basso di Padova, se collegano i due tratti finiremo allagati», sentenzia. I pescatori che gli stanno intorno la pensano come lui e non serve a nulla parlare di vasche di compensazi­one o di sistemi di chiuse: nella zona, l’idrovia mette paura e quindi non la vogliono.

Sono gli ultimi chilometri. L’alveo si allarga di parecchio per lasciar spazio a delle chiatte che chissà se mai si potranno spingere fino a qui. C’è la stazione comando della Conca Gusso, con le porte vinciane completame­nte costruite e ormai abbandonat­e, e superato lo sbarrament­o il corso d’acqua procede placido cullando le barchette ormeggiate sulle rive.

Superata la frazione di Dogaletto, il viaggio finisce. Davanti a noi si spalanca la laguna di Venezia e Porto Marghera, dove ogni anno transitano 550mila camion. Tonnellate di merci dirette a Padova attraversa­ndo paesi e cavalcavia che ormai nessuno si domanda perché siano stati costruiti. L’idrovia è ancora lontana.

Teresio Borgato L’idrovia è un’opera importante perché eliminereb­be il traffico pesante che ammorba l’intera area tra Padova e Venezia

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