Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Le vie della seta
Frankopan realizza un grande affresco sulla storia dell’Asia. «Educazione e cultura per salvare Venezia Adesso i popoli si rifiutano di lavorare insieme»
Domani alle 17.30 al Cinema Eden di Cortina d’Ampezzo, per Una Montagna di Libri, Peter Frankopan presenta «Le vie della seta» (Mondadori). Alle 21 firma copie presso il Miramonti Majestic G.H. L’incontro è organizzato dalla rassegna Una Montagna di Libri (www.unamontagnadilibri.it).
Forse, adesso che siamo definitivamente entrati nell’era Trump e soffiano possenti i venti da Ovest, risulta più difficile mettere in questione il senso di centralità assoluta che noi occidentali amiamo riservarci rispetto al resto del mondo. L’Atlantico in mezzo alle carte geografiche, l’Europa e gli Stati Uniti protagonisti delle cronache del novantanove per cento degli articoli dei giornali che leggiamo; la nostra visione del mondo come metro di valutazione delle civiltà altre. Ma che le vie della seta, quelle che per secoli hanno condotto carova- ne, merci, religioni, e che adesso portano petrolio, gas, risorse minerarie, stiano risorgendo, è un dato freddo e inevitabile, scrive Peter Frankopan: meglio farci i conti ora. Docente a Oxford, il suo libro,
The Silk Roads (in italiano Le vie della seta, Mondadori, 725 pp.) è un monumentale affresco storico che finisce ai giorni nostri. Anzi, a quelli prossimi venturi. E che dall’Asia conduce in un luogo assai vicino: Venezia, l’immortale Venezia.
In «Le vie della seta» lei ricorda che la fortuna di Venezia si basò originariamente sulla disponibilità a speculare sulla schiavitù. È piuttosto inquietante che bellezza e splendore derivino da una cosa così abietta.
«A vederla così, ci si potrebbe chiedere la stessa cosa oggi di coloro che costruiscono le loro fortune sul gioco d’azzardo o sul tabacco; o dagli armamenti o anche dalle speculazioni di borsa. Poche persone, al tempo, avevano un problema con la schiavitù; penso che la cosa veramente scioccante sia quanto tardi gli esseri umani hanno accettato che la schiavitù è sbagliata. E ancora oggi va ricordata la dimensione del fenomeno del traffico di esseri umani in varie parti del mondo. I veneziani di allora volevano fare soldi e vedevano la vendita di uomini, donne e bambini come una cosa che non c’entrava niente con la morale. Poi, dopo ripetute lamentele da parte del Papa, la tratta si spostò sui non-cristiani, poi le contrazioni dell’economia in luoghi come Bagdad e Damasco ridussero la domanda, e infine i mercanti si convertirono naturalmente a beni materiali anziché alle vite umane».
A Venezia si cita spesso la «nuova via della seta» quando si parla di nuove infrastrutture marittime e commerciali. Pensa che un nuovo ruolo di Venezia come terminale di commerci sia compatibile con la sua recente natura turistica? «Venezia è una delle destinazioni turistiche più importanti al mondo. ma la sfida per la città è la stessa che ha affrontato quando l’equilibrio del potere si è spostato dall’Est dell’Europa all’Ovest: come iniettare vita nella città perché non resti solo un museo, come mantenervi una quota di popolazione residente, come sostenere i costi di manutenzione delle sue bellezze. Non mi è stato chiesto di produrre consulenze, ma di solito tutto questo si affronta innanzitutto investendo molto su educazione e formazione, incoraggiando l’imprenditorialità dei giovani ascoltando i loro bisogni e le loro ambizioni; e infine svi- luppando un metodo di governo che consenta di prendere decisioni in modo aperto, lineare ma anche veloce e rapido».
Dopo le chiusure e le guerre del Novecento, è pensabile il ritorno a una forma di civiltà adriatica sul modello di quella koinè che fiorì intorno a questo mare per secoli?
«Viviamo in un momento pieno di insidie per l’Europa. Ci sono disaccordi e fratture dalla Brexit alla Catalogna, dall’emergere di una estrema destra in Germania, Austria, Ungheria, Polonia, ai problemi politici della stessa Italia. Piuttosto che una nuova koinè, al momento vedo pressioni di popoli che si rifiutano di lavorare insieme e che cercano di fare ciascuno per conto proprio. Questo è un cambiamento profondo rispetto a quando, venticinque anni fa, celebravamo tutti insieme la caduta del Muro di Berlino. Dovremmo chiederci come siamo arrivati al punto di parlare più delle nostre differenze che dei modi di cooperare, sia in Europa che con gli Stati Uniti».