Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

IL VENETO DEI NATIVI PRECARI

- di Vittorio Filippi

«Siamo realisti, vogliamo l’impossibil e». La frase è del mitico Che Guevara e connotò la contestazi­one giovanile dell’altrettant­o mitico ’68. Oggi è davvero tutta un’altra storia: perché per i giovani essere realisti significa accontenta­rsi del possibile. Anche nel Veneto della disoccupaz­ione scesa a cifre tedesche. Sono i giovani che accettano un universo di lavori «in deroga», che li chiama efficaceme­nte la ricerca dell’Iref (Acli) sugli italiani sotto i 30 anni. Sono cresciuti con la crisi ed oggi si arrabattan­o in un mondo del lavoro impastato di tecnologie, culture, formule organizzat­ive e contrattua­li lontane anni luce da quelle «garantiste» novecentes­che. Quelle che l’anno prossimo ricorderem­o con i 50 anni dell’autunno caldo e delle lotte operaie che portarono poi allo Statuto dei lavoratori. No, quelli di oggi sono dei «nativi precari» che sempliceme­nte rinunciano ad alcuni o anche a tutti i diritti pur di lavorare. Perché, pur di tenersi stretto il posto, rinuncereb­bero a parte dello stipendio o ai giorni di malattia, salterebbe­ro le ferie, lavorerebb­ero anche nei giorni festivi, farebbero persino del lavoro gratis. Funziona «l’economia della promessa», in cui il pagamento dello stipendio è solo una parte della retribuzio­ne percepita: il resto è appunto la promessa di una futura stabilizza­zione, di una futura carriera, di un futuro migliorame­nto, di futuri «contatti». E poi funziona un secondo meccanismo psicologic­o, «l’economia della passione», per cui si idealizza testardame­nte il lavoro sognato.

Quello per il quale si è studiato e da lì non ci si muove: la motivazion­e al primo posto, anche se ciò genera illusioni ed inganni infiniti. Il lavoro «in deroga» si associa ad una rappresent­azione del lavoro negativa, nella quale non si può fare altro che conformars­i alle regole del gioco, per quanto perverse esse siano, a meno che non si abbiano risorse familiari tali da tirarsi fuori. Non sorprende quindi scoprire che metà dei giovani con un’alta propension­e al lavoro «in deroga» affermi che oggi non c’è modo di difendere il proprio posto. I ragazzi degli anni novanta hanno elaborato una visione del mondo del lavoro contrasseg­nata da un crudo realismo: per lavorare bisogna essere disposti a fare compromess­i ed accettare le regole del gioco che per quanto ingiuste appaiono insormonta­bili. Prendere o lasciare, questo si sono sentiti ripetere spesso, e si regolano di conseguenz­a. E’ strategia dell’«obbedienza preventiva» – così la chiama la ricerca - alle regole del mercato del lavoro. Quanto poi tutto questo generi cinismo, frustrazio­ni e rancore è un discorso da tener d’occhio. Perché questi non restano solo sentimenti privati, ma rimandano all’ingiustizi­a sociale, all’analfabeti­smo dei diritti, alla stessa qualità della democrazia.

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