Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
IL VENETO DEI NATIVI PRECARI
«Siamo realisti, vogliamo l’impossibil e». La frase è del mitico Che Guevara e connotò la contestazione giovanile dell’altrettanto mitico ’68. Oggi è davvero tutta un’altra storia: perché per i giovani essere realisti significa accontentarsi del possibile. Anche nel Veneto della disoccupazione scesa a cifre tedesche. Sono i giovani che accettano un universo di lavori «in deroga», che li chiama efficacemente la ricerca dell’Iref (Acli) sugli italiani sotto i 30 anni. Sono cresciuti con la crisi ed oggi si arrabattano in un mondo del lavoro impastato di tecnologie, culture, formule organizzative e contrattuali lontane anni luce da quelle «garantiste» novecentesche. Quelle che l’anno prossimo ricorderemo con i 50 anni dell’autunno caldo e delle lotte operaie che portarono poi allo Statuto dei lavoratori. No, quelli di oggi sono dei «nativi precari» che semplicemente rinunciano ad alcuni o anche a tutti i diritti pur di lavorare. Perché, pur di tenersi stretto il posto, rinuncerebbero a parte dello stipendio o ai giorni di malattia, salterebbero le ferie, lavorerebbero anche nei giorni festivi, farebbero persino del lavoro gratis. Funziona «l’economia della promessa», in cui il pagamento dello stipendio è solo una parte della retribuzione percepita: il resto è appunto la promessa di una futura stabilizzazione, di una futura carriera, di un futuro miglioramento, di futuri «contatti». E poi funziona un secondo meccanismo psicologico, «l’economia della passione», per cui si idealizza testardamente il lavoro sognato.
Quello per il quale si è studiato e da lì non ci si muove: la motivazione al primo posto, anche se ciò genera illusioni ed inganni infiniti. Il lavoro «in deroga» si associa ad una rappresentazione del lavoro negativa, nella quale non si può fare altro che conformarsi alle regole del gioco, per quanto perverse esse siano, a meno che non si abbiano risorse familiari tali da tirarsi fuori. Non sorprende quindi scoprire che metà dei giovani con un’alta propensione al lavoro «in deroga» affermi che oggi non c’è modo di difendere il proprio posto. I ragazzi degli anni novanta hanno elaborato una visione del mondo del lavoro contrassegnata da un crudo realismo: per lavorare bisogna essere disposti a fare compromessi ed accettare le regole del gioco che per quanto ingiuste appaiono insormontabili. Prendere o lasciare, questo si sono sentiti ripetere spesso, e si regolano di conseguenza. E’ strategia dell’«obbedienza preventiva» – così la chiama la ricerca - alle regole del mercato del lavoro. Quanto poi tutto questo generi cinismo, frustrazioni e rancore è un discorso da tener d’occhio. Perché questi non restano solo sentimenti privati, ma rimandano all’ingiustizia sociale, all’analfabetismo dei diritti, alla stessa qualità della democrazia.