Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
I poeti della Grande Guerra
Il primo conflitto e la nascita della modernità nelle liriche sgorgate fra il ‘15 e il ‘18 come il sangue dalle trincee. La raccolta di poeti italiani del periodo bellico «Le notti chiare erano tutte un’alba» raccontata dall’editore da poco scomparso
Qualche giorno prima della scomparsa, Cesare De Michelis aveva terminato l’articolo per l’appuntamento domenicale sul «Corriere del Veneto». Lo pubblichiamo oggi, giorno in cui avrebbe compiuto 75 anni.
Dopo un quadriennio di celebrazioni all’insegna di un antimilitarismo pacifista sorprendentemente quasi unanime..
Oggi cadeva l’appuntamento quindicinale con l’intervento di Cesare De Michelis, come consuetudine da qualche anno. Con quel senso del dovere ricordato da Massimo Cacciari ai funerali, Cesare guardava il calendario e scriveva per tempo, devoto alla puntualità, anche per facilitare il lavoro di redazione. È successo pure con questo articolo, l’ultimo che ha scritto per il «Corriere del Veneto», che la moglie Emanuela Bassetti ha pescato dal suo computer. Lo pubblichiamo proprio oggi, 19 agosto, nel giorno in cui avrebbe compiuto 75 anni. Ne approfittiamo per ricordare l’imponente e generoso contributo che ha offerto alle pagine culturali (e non solo) del Corriere del Veneto fin dalla sua fondazione. Uno sguardo mobile, instancabile, curioso, che ha esplorato con entusiasmo e generosità tanti autori della letteratura italiana, da Ugo Foscolo a Ippolito Nievo, da Giovanni Comisso ad Andrea Zanzotto. Ha raccontato la nostra letteratura senza ideologie, lontano dai luoghi comuni, temeva la banalità più di ogni altra cosa. (a.z.)
Dopo un quadriennio di celebrazioni all’insegna di un antimilitarismo pacifista sorprendentemente quasi unanime siamo giunti al momento di trarre qualche conclusione sulla Grande Guerra, prendendo atto della demistificazione compiuta, ma anche delle incongruenze e confusioni che essa ha prodotcondanna to, soprattutto sovrapponendosi all’abiura del moderno che intanto si era fatta strada nel finire del Novecento. La scorciatoia più sbrigativa per giustificare la condanna dell’inutile «bagno di sangue» è stata quella di sottolineare un’ipotetica continuità tra l’interventismo del ‘14, l’entusiasmo per la vittoria e la retorica nazionale del fascismo, che tuttavia proprio al suo culmine aveva capovolto il fronte delle alleanze della prima guerra, schierandosi con il nemico di un tempo; i neo pacifisti sono giunti persino a considerare la shoah una diretta conseguenza di tutta la «guerra dei trent’anni», accomunando così nella vincitori e vinti del ‘18, non si capisce a chi lasciando il merito di aver vinto la guerra. Del Novecento ci si dovrà ancora occupare a lungo per restituirne un’immagine meno falsata e distorta, perché
la clamorosa sconfitta del comunismo non si può risolvere solo scorciando il secolo all’89, ma obbliga a una complessiva rilettura del drammatico affermarsi della modernità, che non può essere sepolto dalle macerie delle sue catastrofi senza tener conto delle sue straordinarie conquiste -scientifiche, tecnologiche, culturali- cui nessuno credo sia disponibile a rinunciare. La nuova edizione accresciuta di Le notti chiare erano tutte un’alba. Antologia dei poeti italiani nella Prima guerra mondiale, curata da Andrea Cortellessa (Bompiani, pp. 789, € 22,00) offre numerosi spunti a un ripensamento con il senno di poi su quanto si è detto e scritto in questi anni, che, se per il curatore sono serviti a confermare il suo rifiuto universale del conflitto, a prescindere dalle scelte ideali contrapposte degli avversari, da altri è stato saggiamente utilizzato per una serena riflessione sul formarsi della tradizione del moderno. In qualsiasi momento della storia si voglia riconoscere il punto di partenza della modernità sembra inevitabile opporre alla stabilità di un sistema di valori, l’avventurosa esplorazione del cambiamento, la continua ricerca di un nuovo imprevedibile, che all’insegna del «progresso» si annuncia «migliore».
Le parole d’ordine del Novecento sollecitarono tutte ad andare avanti verso il nuovo e il futuro, rimuovendo gli ostacoli che rallentavano la marcia: in politica sono la nazione e la democrazia che si scontravano contro gli imperi, in economia la finanza e l’industria contro il feudalesimo, nel territorio la
città contro castelli e villaggi, e ancora la velocità contro la lentezza, la scienza contro l’ipse dixit: ebbene la lunga guerra novecentesca si combatté a favore del moderno ed è per questo che i cólti si schierarono per l’intervento e numerosi partirono volontari, non solo in Italia. La Grande guerra fu fondamentalmente il tentativo di accelerare la conclusione della battaglia ideale del moderno e come tale fu affrontata dai giovani e dai cólti, i quali certo scoprirono in fretta la crudeltà del conflitto e la sua disumana violenza, resa micidiale dalle nuove tecnologie delle armi, ma resistettero caparbi a difendere il loro obiettivo anche pagando prezzi inauditi.
Persino le più virulenti denunce del comportamento dei comandi gravemente irrispettosi della vita dei subalterni verranno rese pubbliche come propaganda contro il regime solo quando il fascismo si appropriò della vittoria, facendone parte integrante del proprio nazionalismo bellicista a fianco del Reich. Ci volle la guerra partigiana e la vittoria alleata per restituire l’Italia alla democrazia e insieme alla modernità, ma la Grande guerra, ormai parte di un unico conflitto trentennale, restò un mito «fascista» semplicemente esecrabile, fino a quando Mario Isnenghi non riconobbe, proprio nelle testimonianze letterarie, le tracce di un idealismo moderno che non meritava di andare perduto.
Si dimenticò a lungo, ad esempio, la continuità tra la guerra e la rivoluzione bolscevica, costretta a misurarsi con il neutralismo della seconda internazionale socialista e pronta a riprendere le «disumane» armi appena sperimentate contro l’esercito dei bianchi, in un nuovo capitolo non meno sanguinario della vicenda europea.