Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Il Veneto teme il rischio declino
Pochi investimenti strategici, poca formazione: «Siamo fermi»
PADOVA Un presente ricco, dopo il recupero dei livelli di ricchezza, produzione e occupazione pre-crisi. Ma un futuro incerto, con poca alta formazione e pochi investimenti strategici rispetto ai vicini. È il Veneto che teme il declino del Rapporto 2018 di Fondazione Nordest.
PADOVA Il presente del Veneto è quello solido di una regione che ha fatto leva sul suo sistema produttivo per reagire alla crisi, recuperando i livelli di produzione, di occupazione e ricchezza pre-crisi. Perché ha saputo creare una nuova competitività, non a caso il titolo del Rapporto 2018 di Fondazione Nordest, presentato ieri all’Università di Padova.
Nuova competitività che però si scopre esser quasi un’arma a doppio taglio. Ritrovata, per i risultati del presente. Pil e redditi pro-capite sono sui livelli di Germania e Nord Europa, Nordest e Lombardia sono il nocciolo duro della ripresa e le esportazioni crescono a ritmi sostenuti. Ma se ci si sposta sulla nuova competitività, quella necessaria a fronteggiare il futuro prossimo, il Veneto scopre di essere meno attrezzato anche di vicini molto prossimi, come l’Emilia Romagna. «Abbiamo ottenuto ottimi risultati economici. Ma qualcosa inizia a scricchiolare e il Veneto teme il declino», ha sostenuto ieri Carlo Carraro, l’ex rettore di Ca’ Foscari da inizio anno nuovo direttore scientifico di Fondazione Nordest, alla presentazione del suo primo rapporto, dopo un lavoro di riorientamento della struttura di ricerca delle Confindustrie di Veneto, Trentino e Friuli Venezia Giulia, salvata dalla crisi dello scorso anno.
Declino da guardare in faccia e possibilmente da affrontare per tempo. «Con investimenti, sia pubblici che privati perché le regioni trainanti sono quelle che investono», aggiunge Carraro. E su questo, le slide mostrano chiaramente che Veneto e Friuli sono le realtà in coda, rispetto ad un trenino trainato dal Trentino Alto Adige, pur con l’ovvio ragionamento dell’autonomia.
Non solo più investimenti. Ma più investimenti pubblici su formazione e università, ricerca e innovazione, occupazione femminile; e poi su una rete digitale a basso costo e un ecosistemi di imprese che favoriscono innovazione e startup. Carraro ne fa il fuoco del ragionamento. «A Milano si è investito sul Tecnopolo statale, stanno raddoppiando la Bocconi ed espandendo il Politecnico. In Emilia Romagna è stata la Regione ad investire 200 milioni sui Tecnopoli di Bologna e Reggio Emilia - dice Carraro -. Non manca chi ha fatto investimenti strategici nelle nuove direzioni».
Ma se il livello di istruzione è fondamentale per le competenze e la competitività della nuova società tecnologica digitale, il Veneto si scopre fermo sugli investimenti e a dover fronteggiare una serie di contraddizioni di non poco conto. Come il più basso livello di laureati tra i giovani tra 30 e 34 anni: il 27,6%, a fronte del 30% dell’Emilia Romagna, del 33% di Trentino e Lombardia, del 38% dell’area euro. Con due ulteriori paradossi sul fronte università. «Il Nordest ha tra le migliori università italiane, ma il saldo sia dei diplomati che si iscrivono altrove che dei laureati che si trasferiscono è negativo rispetto alle aree vicine», aggiunge il direttore scientifico.
In sostanza, mentre il Veneto perde il 5,8% dei nuovi iscritti al primo anno, L’Emilia Romagna ne guadagna il 46,2% e la Lombardia il 16%. Lo stesso dicasi per i laureati, nonostante il Veneto sia dotato di un parco imprese competitive e innovative. Ma anche qui perde 4,6 laureati su mille residenti con laurea, mentre la Lombardia ne guadagna 13 e l’Emilia Romagna 15. «Il territorio è percepito come meno innovativo, capace di occupare meno talenti di alto livello aggiunge Carraro -. Il Veneto ha la percentuale più bassa di occupati laureati. Eppure l’innovazione la devono fare anche le imprese tradizionali. Eppure abbiamo tra i più alti livelli di startup innovative, che ci dice c’è che anche un problema di narrazione della nostra realtà». Senza contare il terzo paradosso, quello di dover riconciliare la formazione prodotta con quella ricercata dalle imprese, che non riescono a trovare le figure desiderate.
Ma non sarà che il Veneto nel guado della ripresa, paga, rispetto a territori vicini come l’Emilia, l’aver meno strutture di sistema, veri e propri moltiplicatori di ricchezza, a partire dalle banche scomparse? «Io vedo da un lato i distretti emiliani più forti, con aziende molto grandi che fanno davvero sistema con le altre. E l’altra cosa sono le politiche pubbliche: i Tecnopoli lì li ha finanziati la Regione - replica a lla fine a margine Carraro -. Da noi la priorità è la sanità; ma bisognerebbe bilanciarla con altre che Emilia e Trentino ci hanno mostrato compatibili con una sanità d’eccellenza». Viene da chiedere dell’autonomia: «Piemonte e Trentino hanno sostenuto la banda larga. L’autonomia di visione e scelte può venir prima di quella politica che arriverà». Come dire: se poi l’autonomia darà le risorse per far le cose tanto meglio, ma prima bisogna pensarle, quelle iniziative strategiche? «Esattamente», replica Carraro.
«Il Nordest? La relazione di Carraro è chiara: è fermo. Inutile addolcire la pillola - commenta poi a margine, amaro, il presidente di Fondazione Cariverona, Alessandro Mazzucco -. Il Nordest è fermo. Perché non ci sono investimenti e perché si disperdono le risorse. Perché la formazione è molto debole: il Trentino, in quella professionale, fa molto meglio di noi. E poi lo dico da ex rettore: abbiamo pochi laureati e c’è chi dice che abbiamo troppe università. Una legge in Italia impedisce di farne di nuove; quando bisognerebbe invece farle secondo il nuovo modello professionalizzante, in raccordo con gli Istituti tecnici superiori. Dobbiamo preparare i giovani alle nuove professioni, non a quelle vecchie. Basta riempire il mondo di medici e avvocati, che poi restano senza lavoro».