Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
LO SCARTO TRA CARIGE E LE VENETE
Sarebbe utile tornare a sfogliare i quotidiani del 2 maggio 2016, per rileggere la nota ufficiale con cui Borsa Italiana comunicava la decisione di «non disporre l’inizio delle negoziazioni» sulle azioni della Banca Popolare di Vicenza, con la conseguenza che il provvedimento di ammissione alla quotazione sarebbe stato da considerarsi decaduto. Altra epoca.
Eppure il passaggio fu decisivo, perché segnava il momento esatto nel quale il Fondo Atlante tentava di far camminare con le proprie gambe una delle due banche venete e invece, in assenza di investitori disposti a rischiare, se ne trovava sulle spalle un peso ancor più insostenibile. Davvero altri tempi. La sorte di Veneto Banca non sarebbe stata differente. Oggi di quei due istituti di credito non resta che l’ombra sbiadita delle insegne, che già nell’estate
2017 sarebbero state rimosse in gran velocità dal cessionario Intesa; insegne che in effetti erano diventate una «damnosa hereditas» di cui liberarsi.
La débâcle del maggio
2016 segna un punto decisivo per comprendere l’enorme differenza che intercorre tra la situazione nella quale si trova oggi Carige e quella in cui versavano, al tempo, le banche venete.
Di recente su Carige è intervenuto un solerte commissariamento da parte della Banca Centrale Europea. Lo schema di salvataggio dello Stato appare, inoltre, quello che già fu adottato per Monte Paschi.
Quest’ultima è banca di sistema e, in quanto tale, «too big to fail» (troppo grande per fallire). Invece le banche venete erano non troppo piccole, ma di certo sufficientemente piccole per fallire. L’esito sembra quello per cui Monte Paschi e Carige, sebbene assai malandate, resistono e resisteranno, mentre delle banche venete rimangono, per l’appunto, soltanto le ombre sbiadite delle vecchie insegne. Il nodo fondamentale cui occorre risalire se si vuole impostare una riflessione – con il senno di poi, che di regola abbonda – intorno alla questione degli istituti veneti è pertanto rappresentato dall’essere state banche non troppo piccole, ma non abbastanza grandi; e inoltre banche per azioni, ma non quotate in Borsa. Che poi gli azionisti fossero anche correntisti (e tanto peggio se con cospicui affidamenti «baciati») ha fatto il resto. Viene in mente il paradosso di Münchhausen, ossia la storia di quel barone che avrebbe voluto salvarsi acciuffandosi lui stesso per i capelli: proprio così avrebbero dovuto fare le banche venete. E infatti non accadde. Ma torniamo all’oggi. In una prospettiva nella quale possa profilarsi qualche pacificazione sociale – e ciò in specie nella misura in cui gli indennizzi arriveranno davvero nelle tasche degli ex azionisti – una riflessione più pacata bisognerà pur che venga sviluppata intorno a una seria riprogettazione dell’assetto bancario-finanziario di un territorio composto di tre regioni economicamente rilevanti, però rimaste a corto di istituti di credito «nel» territorio. Beninteso, nulla v’è di male in ciò (verrebbe anzi da soggiungere che sia un bene), purché si vedano operare davvero istituti di credito «per» il territorio.