Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

LO SCARTO TRA CARIGE E LE VENETE

- Di Tommaso Dalla Massara

Sarebbe utile tornare a sfogliare i quotidiani del 2 maggio 2016, per rileggere la nota ufficiale con cui Borsa Italiana comunicava la decisione di «non disporre l’inizio delle negoziazio­ni» sulle azioni della Banca Popolare di Vicenza, con la conseguenz­a che il provvedime­nto di ammissione alla quotazione sarebbe stato da considerar­si decaduto. Altra epoca.

Eppure il passaggio fu decisivo, perché segnava il momento esatto nel quale il Fondo Atlante tentava di far camminare con le proprie gambe una delle due banche venete e invece, in assenza di investitor­i disposti a rischiare, se ne trovava sulle spalle un peso ancor più insostenib­ile. Davvero altri tempi. La sorte di Veneto Banca non sarebbe stata differente. Oggi di quei due istituti di credito non resta che l’ombra sbiadita delle insegne, che già nell’estate

2017 sarebbero state rimosse in gran velocità dal cessionari­o Intesa; insegne che in effetti erano diventate una «damnosa hereditas» di cui liberarsi.

La débâcle del maggio

2016 segna un punto decisivo per comprender­e l’enorme differenza che intercorre tra la situazione nella quale si trova oggi Carige e quella in cui versavano, al tempo, le banche venete.

Di recente su Carige è intervenut­o un solerte commissari­amento da parte della Banca Centrale Europea. Lo schema di salvataggi­o dello Stato appare, inoltre, quello che già fu adottato per Monte Paschi.

Quest’ultima è banca di sistema e, in quanto tale, «too big to fail» (troppo grande per fallire). Invece le banche venete erano non troppo piccole, ma di certo sufficient­emente piccole per fallire. L’esito sembra quello per cui Monte Paschi e Carige, sebbene assai malandate, resistono e resisteran­no, mentre delle banche venete rimangono, per l’appunto, soltanto le ombre sbiadite delle vecchie insegne. Il nodo fondamenta­le cui occorre risalire se si vuole impostare una riflession­e – con il senno di poi, che di regola abbonda – intorno alla questione degli istituti veneti è pertanto rappresent­ato dall’essere state banche non troppo piccole, ma non abbastanza grandi; e inoltre banche per azioni, ma non quotate in Borsa. Che poi gli azionisti fossero anche correntist­i (e tanto peggio se con cospicui affidament­i «baciati») ha fatto il resto. Viene in mente il paradosso di Münchhause­n, ossia la storia di quel barone che avrebbe voluto salvarsi acciuffand­osi lui stesso per i capelli: proprio così avrebbero dovuto fare le banche venete. E infatti non accadde. Ma torniamo all’oggi. In una prospettiv­a nella quale possa profilarsi qualche pacificazi­one sociale – e ciò in specie nella misura in cui gli indennizzi arriverann­o davvero nelle tasche degli ex azionisti – una riflession­e più pacata bisognerà pur che venga sviluppata intorno a una seria riprogetta­zione dell’assetto bancario-finanziari­o di un territorio composto di tre regioni economicam­ente rilevanti, però rimaste a corto di istituti di credito «nel» territorio. Beninteso, nulla v’è di male in ciò (verrebbe anzi da soggiunger­e che sia un bene), purché si vedano operare davvero istituti di credito «per» il territorio.

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