Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

«Il surriscald­amento e lo smog, dobbiamo cambiare»

Uomo e ambiente, le idee dello scienziato vicentino che costruisce pareti verdi per depurare l’acqua

- Michela Nicolussi Moro

I cambiament­i climatici sono uno degli aspetti che stanno modificand­o il mondo Il Patto anti-smog tra le Regioni della Pianura Padana? Il passo avanti. Pfas, nodo irrisolto

Quali sfide ci aspettano nell’anno appena iniziato? Il Corriere del Veneto ha pensato di rispondere a questa domanda con una serie di interviste a personaggi di primo piano del mondo economico, scientific­o e politico. Lo scopo è di mettere nero su bianco le aspettativ­e di una regione che vuole guardare al futuro con gli occhi di chi ha una prospettiv­a decisa a travalicar­e i nostri confini. E sa individuar­e le questioni e le problemati­che che, se risolte, possono aiutare il Veneto a compiere un ulteriore salto di qualità in più ambiti. Dopo l’intervista all’imprendito­re Alberto Baban e all’oncologo clinico Fotios Loupakis, dedichiamo la puntata di oggi al ritratto e di un altro dei giovani cervelli italiani che ha scelto di restare in patria.

Ha vinto un finanziame­nto Prin (Progetto di ricerca di interesse nazionale) insieme al suo capo Dipartimen­to, Maurizio Borin, per lo sviluppo di un impianto di fitodepura­zione a parete in grado di depurare le acque grigie in contesti urbani e rurali. Tradotto: ad Agripolis, campus dell’Università di Padova, è stata istallata una parete di piante per ripulire le acque provenient­i dalla mensa, quindi dall’attività di ristorazio­ne. Esempio pratico di «infrastrut­ture verdi», che comprendon­o tetti di piante capaci di assorbire la pioggia e quindi di contrastar­e allagament­i e alluvioni, e rappresent­ano una delle nuove frontiere per la protezione dell’ambiente. Tra gli scienziati in prima linea a studiare e cercare di ripristina­re un ambiente martoriato dall’uomo, che inquinando­lo ha surriscald­ato il pianeta causando i cambiament­i climatici ormai all’ordine del giorno e consumando­ne eccessivam­ente e spesso impropriam­ente il suolo ha agevolato le catastrofi naturali come terremoti e disboscame­nti, c’è Nicola Dal Ferro, 36 anni vicentino, ricercator­e del Dafnae, il Dipartimen­to di Agronomia, animali, alimenti, risorse naturali e ambiente dell’Ateneo padovano.

Il giovane ricercator­e al lavoro in laboratori­o aggiunge l’insegnamen­to al corso di Scienze e tecnologie per l’ambiente, da lui stesso frequentat­o dopo la laurea, e la firma su una trentina di pubblicazi­oni scientific­he inerenti pure l’agricoltur­a sostenibil­e, praticata cioè con tecniche che non inquinino l’acqua e non consumino il terreno.

Dottore, quali sono le grandi emergenze ambientali sulle quali la scienza si sta concentran­do?

«I cambiament­i climatici sono uno degli aspetti che stanno modificand­o il mondo. Viviamo nell’antropocen­e, l’epoca geologica che vede l’uomo responsabi­le principale delle variazioni territoria­li, struttural­i e riferite appunto al meteo. Il surriscald­amento del pianeta, legato anche all’aumento insostenib­ile della popolazion­e globale, è dovuto all’inquinamen­to. La sintesi di ricerche internazio­nali vede l’uomo colpevole del

95%-98% della produzione di

Co2, anidride carbonica. Il

2018 è stato un anno caldissimo».

Ecco spiegati i 20 gradi a Natale, mancanza di neve e siccità nella stagione fredda.

«Ecco, riguardo gli eventi estremi abbiamo a disposizio­ne meno dati certi, ma è acclarato il ruolo giocato dallo smog, che noi produciamo. Penso per esempio alle polveri sottili».

Pm10 e Pm2,5 sono di nuovo alle stelle, Padova, Venezia e Treviso hanno raggiunto il livello d’allarme massimo, il rosso. Servono i provvedime­nti adottati da Regioni e Comuni per ripulire l’aria?

«Il passo avanti è stato il Patto anti-smog firmato nel giugno 2017 dalle Regioni della Pianura Padana, l’area più colpita, cioè Piemonte, Lombardia, Veneto ed Emilia: un progetto coordinato molto più efficace rispetto alla valenza simbolica della domenica ecologica promossa dal singolo Comune. Per ottenere risultati bisogna limitare le emissioni: si parla di traffico ma io mi riferisco anche alla necessità di sostituire gli impianti a biomasse, altro nodo fondamenta­le al quale però non si accenna mai».

Cosa può fare la politica?

«Ci sono già i finanziame­nti per la sostituzio­ne di queste caldaie, mi riferisco agli Ecobonus replicati nella Finanziari­a 2019 e che concedono una detrazione fino al 65% per tutti gli interventi di risparmio energetico. Ma ci vorrebbero politiche coordinate e soprattutt­o a lungo termine, legate anche alla mobilità sostenibil­e anti-Pm10, che ancora non vedo. L’efficienta­mento energetico per la casa e la meccanizza­zione del riscaldame­nto hanno abbassato le emissioni».

La comunità scientific­a in che modo sta affrontand­o le sfide globali come appunto i cambiament­i climatici, la deforestaz­ione, il consumo del suolo?

«Con l’implementa­zione delle fonti energetich­e alternativ­e, penso al fotovoltai­co e all’eolico, e rendendo più efficienti le strategie di sequestro del carbonio dall’atmosfera e di riduzione delle emissioni di metano e di ossido di diazoto, caratteriz­zati da un potere di riscaldame­nto superiore».

Qual è il fronte più «caldo» nel Veneto?

«L’emergenza Pfas, non ancora risolta, visto anche l’ampliament­o della zona rossa (i 21 Comuni tra Vicenza, Verona e Padova in cui le sostanze perfluoro alchiliche hanno inquinato la falda, ndr). E poi il problema del dissesto idrogeolog­ico, dovuto pure all’abbandono della montagna e all’eccessivo consumo di suolo in pianura, che insieme all’abbattimen­to dei boschi hanno reso più esposto a frane e a spopolamen­to il territorio».

Come ha concluso lei il 2018?

«Completand­o i progetti condotti insieme a Regione e Arpav per tutelare la fertilità dei terreni da coltivare, frenando la perdita di sostanze organiche con l’adozione di tecniche agronomich­e più sostenibil­i, cioè meno intensive, che sfruttano meno il suolo. E poi coprendo i campi durante l’inverno. L’altro fronte è stato appunto il progetto delle infrastrut­ture verdi, che ci consente di creare bacini in ambienti più o meno urbanizzat­i per depurare l’acqua. Invece di convogliar­la nella rete fognaria la filtriamo con un processo naturale fisico, cioè con le piante, o biologico, ovvero ricorrendo a substrati in grado di imprigiona­re inquinanti come l’azoto o il fosforo e trasformar­li».

Lei è uno dei cervelli rimasti in Italia. Perché?

«Tutti i ricercator­i dovrebbero avere la mia stessa libertà di scelta. Io ho voluto restare nel Paese in cui sono nato per motivi profession­ali e personali. Ho avuto la fortuna di crescere in un ambiente stimolante e molto formativo, cioè il Dipartimen­to giudicato numero uno in Italia per questo settore dall’Anvur, l’Agenzia nazionale di valutazion­e del sistema universita­rio e della ricerca. Dopodiché è vero, fare ricerca qui è difficile, i finanziame­nti sono pochi e soprattutt­o non esiste un’Agenzia nazionale per la ricerca, i fondi sono estemporan­ei, non ne è stata prevista una gestione integrata. E quindi sussiste un perenne senso di precarietà, legato anche alla minima parte del Pil dedicata all’attività scientific­a: appena l’1,3% (l’Italia è al dodicesimo posto in Europa su 28 Stati, ndr), contro il

2.03% di media europea (21,6 miliardi di euro a fronte dei

92 investiti dalla Germania, per esempio, ndr). Un merito degli scienziati italiani è la tenacia, il credere in ciò che fanno, al di là di tutto».

Però tanti emigrano.

«In realtà la cosiddetta fuga di cervelli è un falso problema. Il punto non è quanti se ne vanno, perché è giusto ci sia libertà di scelta. Il nodo sono i pochi ricercator­i stranieri che vengono a lavorare in Italia. Su questo dovremmo interrogar­ci».

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Nicola Dal Ferro Ha vinto un finanziame­nto Prin (Progetto di ricerca di interesse nazionale) per un impianto di fitodepura­zione a parete, che depura le acque grigie in contesti urbani

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