Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
«Qui ci temono» E progettavano un sequestro
Usura e violenze, il «controllo totale» del boss. Ma il sequestro Dalle Rive fallì
«Diglielo, che noi siamo i Casalesi di Eraclea», si spalleggiavano i camorristi, quando si trattava di intimorire qualcuno.
A comandare era Luciano Donadio. Si sentiva un boss a tutti gli effetti, posizione guadagnata con il sangue: «Un dieci anni fa son passati tutti da me... Guerre, guerre continue. Fino a comandare solo noi», si vantava con un’amica, nel marzo del 2016. «Ci ho messo cinque mesi a fare il dominio assoluto (...) Ormai comandiamo, cosa vuoi... Si mettono paura adesso!».
Le oltre mille pagine che compongono l’ordinanza con la quale il gip di Venezia, Marta Paccagnella, ha scardinato lo strapotere della famiglia Donadio, ricostruiscono quello che un testimone ha definito «una vera e propria agenzia di affari criminali» con sede nel Veneziano.
Riina e Mala del Brenta
In una intercettazione, il boss arriva a dire che perfino il nipote di Totò Riina sarebbe venuto a chiedergli aiuto: «Lui è venuto qua perché io conosco lo zio suo, tanti anni fa. Che suo zio gli ha detto “Vai da Luciano a Eraclea e vedi che tu là comunque stai tranquillo” (...) Totò Riina era quello che comandava, che ha fatto saltare i giudici con le bombe sull’autostrada. Ti ricordi? È il fratello di sua madre. E lui è venuto qua e i suoi zii hanno detto: “Vai da Luciano, che lui ti mette a posto”...».
Che i Casalesi difendessero con i denti il territorio, è evidente. E non importava che la minaccia arrivasse dalla ‘ndrangheta o dalla mafia: «Al di fuori di noi nessuno si può permettere di aprire bocca», spiegava Donadio. Anche quando i «rivali» erano camorristi come loro: quando scopre che una ditta si rifiuta di versare i soldi perché protetta da esponenti della criminalità campana, va su tutte le furie: «Diglielo che non si permette mai più di parlare a livello di mafia da queste parti (...) li lego dietro la macchina uno alla volta, lo sa che siamo capaci di farlo. Siamo all’altezza di farli sparire».
Tutti dovevano rispettare il boss e la sua famiglia. Un caso su tutti: a chiedere il suo intervento è stato perfino un esponente della Mala del Brenta come Luciano Maritan. Il 5 novembre del 2015 mentre si trova agli arresti domiciliari - gli telefona perché «io ho un problemino, se chiamo te è perché tu puoi risolvermelo». Maritan racconta a Donadio che uno dei suoi uomini gli avrebbe chiesto un prestito di 400 euro, che tarda a ripagargli. «Prima che gli mando uno a tirargli le orecchie, per rispetto ti chiamo a te, Luciano». Il boss ribatte «che gli farà restituire i soldi il prima possibile».
«Tutti hanno paura»
Per il gip, le prove raccolte dagli investigatori dimostrano non solo gli affari illeciti, ma anche il fatto che i Donadio puntavano «al controllo del territorio, delle sue attività economiche e dei suoi abitanti attraverso infiltrazioni nel tessuto sociale e condizionamenti indirizzati anche verso gli apparati pubblici». Una famiglia mafiosa radicata nella piccola comunità di Eraclea in modo «così profondo da generare un effetto intimidatorio diffuso di cui sono rimasti vittima perfino le autorità locali come l’ex comandante della locale stazione dei carabinieri, un appartenente alla polizia di Stato e, recentemente, un’esperta agente della polizia locale che ha omesso di sanzionare Antonio Puoti (uno degli indagati, ndr) per rispetto al sodalizio cui questo appartiene».
Donadio e i suoi uomini non andavano troppo per il sottile. Lo dimostrano le conversazioni con le loro vittime: imprenditori veneti che si erano rivolti ai Casalesi di Eraclea per un prestito e si ritrovavano ad affrontare tassi usurari che raggiungevano il 20 per cento al mese. E tutti pagavano, perché lo strozzino «incute paura per la cattiveria che riesce a esprimere con il solo sguardo», ha spiegato una vittima.
Dopo aver ricevuto 150 mila euro, un costruttore si è ritrovato con un debito di 350 mila e ridotto in povertà, al punto che sua moglie nel 2009 scoppia a piangere mentre spiega al boss che vivono senza corrente perché non hanno i soldi per pagare le bollette e ora deve assolutamente trovare 2.300 euro «perché se no mi staccano anche l’acqua (...) Adesso è freddo, dio mio! come si fa... mi tolgono l’acqua, non ho la luce, con cosa mi scaldo? Non so...».
Il sequestro fallito
L’indagine ha inoltre svelato l’imboscata tesa all’imprenditore trevigiano - con un passato nel mondo del calcio Rino Dalle Rive: «Avrebbe dovuto essere sequestrato - annota il gip - con gli eventuali familiari e quindi rapinato di una somma per oltre 500 mila euro». Un piano che metteva nel mirino la villa della vittima, a Castelcucco, e si avvaleva anche delle informazioni di una guardia giurata che, grazie all’amicizia che lo legava alla moglie dell’imprenditore, era a conoscenza di «ogni suo movimento, ogni secondo: se è in casa, se è fuori, quando rientra il bambino da scuola... Ha due casseforti in casa...».
Un assalto armato che, proprio grazie alle intercettazioni, è stato sventato dagli inquirenti.