Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Addio a Giorgio Gioco Il cuoco-umanista dei «12 Apostoli»
Il suo ristorante i «12 Apostoli» ospitò intellettuali e artisti Diede vita al premio
Quando non esistevano gli chef vanitosi e malmostosi divinizzati dai talent show della tv, c’era una volta un cuoco dall’anima schietta e dal sorriso contagioso che portava il suo grande cappello bianco come se l’avesse avuto in testa dalla nascita, con la naturalezza di chi ha ereditato la corona di un regno del quale tutti gli riconoscevano il dominio: la cucina. Quell’uomo era Giorgio Gioco, patron dello storico ristorante «12 Apostoli» di Verona e ultimo custode delle più antiche tradizioni scaligere. Si è spento ieri alla soglia dei 95 anni, dopo una vita piena di riconoscimenti - ebbe due stelle Michelin quando erano molto rare per l’Italia - e prove di fedeltà da parte di una clientela internazionale spesso composta da intellettuali e artisti.
Artista, anzi, umanista nel senso di cultore della classicità, era lui stesso. Un ruolo che interpretò in primo luogo attraverso il recupero dell’identità culinaria dei territori. Comindella ciò organizzando nel 1961 un celebre pranzo a Palazzo Te di Mantova, con un allestimento quattrocentesco (per 88 ospiti, corteggiati con 35 portate e altrettanti vini) che ricalcava i banchetti dei Gonzaga. Dopo di allora continuò nella sua osteria - fondata quasi 200 anni fa da 12 mercanti di piazza Erbe e acquistata dal padre Antonio agli inizi del ‘900 - nobilitando i piatti antichi e magari poveri provincia veronese, ma senza alterarne i sapori e i profumi. I risultati erano sempre entusiasmanti per gli ospiti, tra i quali c’era spesso Orio Vergani, firma autorevole del Corriere, che aveva già messo in piedi «l’Accademia della cucina» e che un giorno gli diede un’idea nuova, indirizzandogli una cartolina: «Se fossi vissuto a Verona, invece del Premio Bagutta avrei fondato il Premio dei 12 Apostoli... » Fu la scintilla da cui Giorgio Gioco, assieme agli amici più assidui ai suoi tavoli cooptati subito nel ruolo di giurati, cioè Indro Montanelli, Enzo Biagi, Giulio Nascimbeni e Cesare Marchi, fece nascere, ormai mezzo secolo fa, un premio giornalistico e letterario che divenne subito prestigioso. Lo dimostra l’albo d’oro, che va da Spadolini a Magris, da Rigoni Stern a Levi Montalcini, da Zavoli a Zucconi e Brera a de Bortoli e tanti altri.
Era proprio nelle festose serate del premio che Gioco compiva un piccolo miracolo, di solito riservato agli intimi. Alternando all’italiano il nobile dialetto veronese, recitava da grande attore qualche poesia dell’amato Berto Barbarani, i cui versi erano un po’ la sua Cavalleria rusticana, cioè la pagina classica di un repertorio vernacolare attraverso cui lanciava dichiarazioni d’amore alla città. Per chi veniva da fuori, magari da molto lontano o persino dall’estero, non c’era mai bisogno di spiegare o tradurre.
Ma gli esempi della capacità espressiva del cuoco-poeta sarebbero moltissimi. E, com’è ovvio, vanno oltre il menu. Ricordo che una sera di luglio di alcuni anni fa fui fatto accomodare al tavolo accanto a quello dove sedeva – con la moglie e un aiutante di campo e senza arcigne scorte – re Carlo Gustavo di Svezia. Osservai il dialogo tra lui e Giorgio, che si fece capire benissimo con la sua solita parlata. Il re scelse di farsi consigliare e mangiò risotto al tartufo e carni della Lessinia, sorseggiando un Valpolicella. Prima d’andarsene, volle visitare la cantina, dove dei lavori di restauro avevano portato alla luce i resti intatti di una strada e di un tempio romano e anche in quell’esplorazione sotterranea il cantilenante idioma veronese si rivelò un passepartout.
Come tutti, Giorgio Gioco aveva le sue manie. Una era quella di appuntare dei promemoria su dei cartoncini che poi appendeva qua e là in cucina. In uno c’era scritto: «Quando bevi un sorso d’acqua, pensa alla fonte». Inutile chiedergli che cosa significasse quella raccomandazione, a se stesso e agli aiutanti: pensa alle tue origini, alle tradizioni della tua terra. E non tradirla mai. Lui non lo ha fatto. Da qualche anno il testimone del 12 apostoli è passato al figlio Antonio e al nipote Filippo, che già hanno dimostrato di saper custodire al meglio quella memoria.