Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Troncon, un Ben Hur azzurro: «La mia vita con la palla ovale»
Se pensi al rugby, pensi a Alessandro Troncon. Se pensi a un compagno che vorresti avere al tuo fianco, ti viene in mente Alessandro Troncon. Se pensi a un capitano a cui affidarti quando si tratta di scegliere se andare per i pali o affondare con la mischia, ti viene in mente Alessandro Troncon. Ma anche se pensi a un amico con cui bere uno spritz e tirare tardi a parlare di tutto, ti viene in mente lui: Alessandro Troncon.
Tronky è l’essenza della palla ovale, del gioco collettivo per definizione. Dello sport durissimo ma leale, dove sai che nessuno ti farà uno sconto e che se c’è da pestare duro nessuno si tirerà indietro. E, soprattutto, dove vige il rispetto per l’avversario. Che non è tirare a campare con la palla quando stravinci, anzi: è andare fino in fondo finché non finisce il match. E anche con cento punti in capo nessuno si sentirà umiliato. Perché imparare a perdere, nella vita, serve sempre, come saper ballare il tango o parlare l’inglese. Troncon, 45 anni, trevigiano doc, è stato il capitano per eccellenza. È stato il mediano di mischia per eccellenza. Quello che decide la rotta, tiene il timone a dritta, guida la mischia, apre il gioco e offre alla squadra la chance di conquistare campo, di avanzare con quel passo contronatura che vuole il rugby: passando palla all’indietro, perché senza sostegno sei niente. È stato un agonista straordinario e un placcatore ai limiti dell’incoscienza, a dispetto di un fisico, si fa per dire, normale. Troncon ha segnato un’epoca nel rugby internazionale, con i club e la Nazionale. Ha raccolto, in tredici anni di sangue, botte, sudore e fango, tutto quello che un giocatore italiano può sognare: sette scudetti in maglia Benetton, due Coppe Italia, una Supercoppa, una Challenge con i francesi del Clermont. Nel 1997, prima vittoria di peso dell’Italia sulla Francia, lui c’era. Nel 2000, all’esordio vincente nel Sei Nazioni a Roma, lui c’era. E c’era nei momenti più neri, vedi il Mondiale 1999 in Francia, con il devastante 101-0 incassato dagli All
Blacks.
Troncon, dove parte la storia d’ amore con la palla ovale?
«Parte a sei anni, mi pare. Una cosa automatica, mio padre era stato un giocatore e ho voluto iniziare anche io, avevo un amico che già giocava e l’ho seguito. Mi è piaciuto subito e, da lì, è partita la rumba».
Gli esordi a Mirano e poi subito a Treviso con i Leoni del Benetton.
«Mirano per me rappresenta tanto, anche se è stata una parentesi breve. Treviso è un pezzo importante della mia vita: lì ho vinto tutto, è la squadra della mia città a cui sono legatissimo, anche se vivo a Parma. Ho una montagna di ricordi bellissimi, legati alle vittorie ma non solo: negli anni in biancoverde ho stretto amicizie che negli anni sono rimaste intatte nonostante la distanza».
Dal 1994 al 2007: un’epoca sportivamente parlando. Quanto è cambiato il rugby in questi tredici anni?
«Parecchio... Siamo passati dal dilettantismo puro al professionismo. Dal 2000 in poi ci sono stati cambiamenti epocali, potrei dire che il nostro è lo sport che ha corso di più e che, anche adesso, continua a correre».
Tanti cambiamenti: tutti positivi?
«È l’evoluzione naturale... Se pensiamo allo sport amatoriale, del terzo tempo, della pastasciutta e delle birre nella club house possiamo far correre la nostalgia. Se pensiamo al professionismo come strutture, gestione, sostegno agli atleti, studio, ritorno mediatico e introiti è un altro discorso».
Perché con la Nazionale si continua a mancare il salto definitivo di qualità?
«Intanto c’è un importante ricambio generazionale in corso. E poi non dimentichiamo che ci confrontiamo sempre con i migliori al mondo. Ma stiamo crescendo, vedo sempre più giovani interessanti in Azzurro: io sono molto fiducioso».
Biancoverde interrotto da due parentesi a Clermont Ferrand: cosa le hanno dato?
«Tantissimo, come uomo e atleta. Ho aperto la visuale, ho imparato stili di vita diversi, modi di pensare diversi. E ho giocato ai massimi livelli».
Una città che davvero vive di rugby...
«Di rugby e di gomme... È un po’ una piccola Torino: lì c’è la Fiat, a Clermont Ferrand c’è la Michelin. Una bella esperienza».
Le manca un ingaggio in Inghilterra?
«Ho avuto qualche contatto ma non ho mai approfondito la cosa. In Francia il mio amico Diego Dominguez cercò di portarmi allo Stade Francais a Parigi, con lui... Ci trovammo quasi di nascosto da lui, insieme con il presidente del club: ci pensai su una notte e decisi di restare con il Clermont. Un contratto è un contratto e lì stavo bene».
E fuori dall’Europa?
«Al culmine della carriera potevo andare nel Super Rugby, nell’emisfero Sud, ma non se ne fece nulla: stavo più che bene dov’ero. Anche come ingaggio, per essere chiari...».
Niente Giappone, una meta che pure ha attirato tanti fuoriclasse?
«Intendi a parte il sushi?».
A parte il sushi.
«Allora no».
Con Dominguez lei ha formato una cerniera di mediana tra le più forti e complete di ogni tempo, non solo in Europa...
«Con Diego c’era una straordinaria sintonia, abbiamo giocato quasi sessanta partite in azzurro ma mai insieme in un club. E pensare che quando giocava a Milano i primi “segni” in faccia me li ha fatti proprio lui...
Non si può dire che lei la faccia non ce la mettesse: 163 punti di sutura, nemmeno un pugile a fine carriera...
«Ma quella è una parte del tutto, il nostro è uno sport di contatto. Può capitare e capita ma non è certo l’essenza del gioco».
Mediano di mischia a vita: quando ha capito che era quello il suo posto?
«Subito. È un ruolo dove vieni chiamato a decidere, per te e per gli altri: se non decidi, devi giocare da un’altra parte».
Febbraio 2000, a Roma primo match nel Sei Nazioni e battete la Scozia 34-20: ricordi?
«Tanti, emozionanti. Quella forse non era la migliore Italia ma era scritto da qualche parte che si doveva vincere: noi non abbiamo fatto altro che raccogliere quel foglio».
Tre cose che le insegnato il rugby?
«Battersi fino in fondo per le cose in cui credi; avere rispetto per le idee degli altri; far rispettare il tuo spazio».
Amore infinito
Ho iniziato a giocare a sei anni, mi piaceva stare all’aperto con gli amici e da lì ho continuato. Il rugby mi ha insegnato a lottare per ciò in cui credo, a rispettare gli altri e a farmi rispettare
Che cosa direbbe a un bambino che, oggi, volesse iniziare con la palla ovale?
«Divertiti e prova la gioia di stare all’aria aperta con gli amici. Tutto qui. Il resto, se deve venire, viene da solo».
In famiglia qualcuno segue le sue orme?
«Mio figlio ha iniziato quest’anno, ha quasi 5 anni... Vedo che gli piace, è felice. Questo deve essere: un gioco e basta».
Le piace allenare, non ha mai voglia di tornare a giocare?
«Giocare no, il fisico chiede altro... Qui alle Zebre ho trovato un’ottimo club e una grande famiglia. Lo spirito del rugby è questo».