Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

I CINQUE PUNTI DA SOTTOLINEA­RE

- Di Mario Bertolissi

Caro direttore, mentre il Nord tace – salvo qualche rara eccezione – il Sud imperversa. Se si vuole una conferma del fatto che la richiesta di maggiore autonomia avanzata...

Caro direttore, mentre il Nord tace – salvo qualche rara eccezione – il Sud imperversa. Se si vuole una conferma del fatto che la richiesta di maggiore autonomia avanzata da Emilia-Romagna, Lombardia e Veneto ha colto nel segno, essa sta nell’aver generato una sollevazio­ne di massa: segno evidente che sono a rischio rendite di posizione. Dunque, rendite parassitar­ie. Di recente, è sceso in campo Ernesto Maria Ruffini, già amministra­tore delegato e presidente del consiglio di amministra­zione di Equitalia. Tra parentesi, dimentica che il Veneto confina con le Regioni speciali Friuli-Venezia Giulia e

Trentino-Alto Adige. Non è cosa da poco.

Il nucleo essenziale del suo discorso è il seguente: «Il punto è che l’autonomia differenzi­ata è solo il terzo atto della storia del federalism­o all’italiana, un federalism­o molto attento a trasferire il piacere di spendere dallo Stato alle Regioni e a lasciare il dispiacere di tassare lì dove sta, cioè allo Stato» (in L’Economia, 13 maggio 2019, 21). Detto in parole povere, le Regioni chiedono di spendere, ma si guardano bene dal tassare. Vero o falso? Falso, per alcune specifiche ragioni.

1) Il primo tassello dell’autonomia finanziari­a regionale è stato posto dalla legge n. 281/1970. Bruno Visentini detta le basi della riforma tributaria e, all’atto dell’istituzion­e delle Regioni ordinarie, stabilisce che le stesse devono avere tributi propri del tutto irrilevant­i. Le Regioni si lamentano, ma la Corte costituzio­nale dà ragione allo Stato. La frase con cui concludo – nel 1983 – una monografia sulla finanza delle Regioni è di questo tenore: per ora, «non ha un gran senso parlare di autonomia finanziari­a regionale e locale». Preclusa ogni fiscalità propria.

2) Ovviamente, il disegno ha sempre avuto un regista: il ministero delle Finanze, gli apparati centrali, i dotti assertori della tesi che il tributo è espression­e di sovranità. La sovranità è dello Stato: dunque, il potere di levare l’imposta è dello Stato e deve rimanere allo Stato. Tant’è vero che un illustre tributaris­ta – Francesco Tesauro – commentand­o la sentenza numero 271/1986, ha parlato di «autonomia inautonoma». Infatti, la potestà tributaria regionale è «un fatto soltanto simbolico», perché corrispond­e «alla nuda titolarità del potere legislativ­o di attivare in ambito locale la legislazio­ne statale». Non a caso, si parla di finanza derivata (da quella statale) o di trasferime­nto, che non ha mai contribuit­o ad innervare in Italia il principio di responsabi­lità.

3) Come se non bastasse, con la riforma costituzio­nale del 2001 qualcuno si era illuso che le cose cambiasser­o. Per nulla! Anzi, a conferma della matrice giacobina del nostro ordinament­o, la Corte costituzio­nale – sorprenden­do, addirittur­a, l’Avvocatura generale dello Stato – ha stabilito che l’imposta regionale sulle attività produttive non è vero che è regionale: è statale. Leggere la sentenza numero 296/2003, per credere!

Di modo che, quel che resta nelle mani della fiscalità regionale è un pugno di mosche. Sempre secondo la Corte, «l’esercizio del potere esclusivo delle Regioni di autodeterm­inazione del prelievo è ristretto a quelle limitate ipotesi di tributi, per la maggior parte ”di scopo” o ”corrispett­ivi”, aventi presuppost­i diversi da quelli degli esistenti tributi erariali». Questa la puntualizz­azione che si legge nella sentenza numero 102/2008: potestà fiscale sì, ma in ambiti pressoché privi di materia imponibile.

4) Il ministro Tria, nel corso dell’audizione – svoltasi dinanzi alla Commission­e parlamenta­re per l’attuazione del federalism­o fiscale il 18 aprile 2019 – ha lamentato il fatto che le bozze di intesa violerebbe­ro la riserva esclusiva di potestà legislativ­a in tema di «sistema tributario e contabile dello Stato» (articolo 117, 2° comma, lettera e, della Costituzio­ne). Se ne è lamentato, anche se nessuna Regione ha preteso di interferir­e con prerogativ­e, che gli apparati centrali hanno

sempre rivendicat­o e ottenuto per sé. Al pari del potere inverso – di tagliare le spese – esercitato con protervia, linearment­e, secondo il criterio della spesa storica: fonte di inefficien­za e irresponsa­bilità.

È vero allora – testi normativi e giurisprud­enza costituzio­nale alla mano esattament­e il contrario di quel che ha sostenuto Ernesto Maria Ruffini.

5) Quanto al resto, vale questo limpido, drammatico rilievo di Mario Draghi: le risorse trasferite sono di «un ammontare imponente; per il Sud, è anche il segno di una dipendenza economica ininterrot­ta». Dal 2008 – esclusi dettagli – non è cambiato molto: salvo il debito pubblico, la cui crescita è inarrestab­ile e al quale si dovrebbe provvedere con una certa sollecitud­ine. Ad esempio, rendendo efficienti le Regioni che non lo sono o che lo sono meno di altre, ai sensi dell’articolo 97 della Costituzio­ne, che nessuno nomina mai.

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