Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
SE ZONIN SALE SUL PALCO FRA J’ACCUSE E TORMENTO
La pièce di Bugaro: in scena «i cattivi» delle banche, che non si giustificano ma puntano il dito contro gli industriali
Il teatro può risultare sgradevole perché è troppo umano. Gli preferiamo il cinema perché in sala non si corre il rischio che l’attore, all’improvviso, esca dal personaggio e, anche per un attimo, dica: ehi tu, sì tu in prima fila, che non sei d’accordo? C’è qualcosa che non va?
Il teatro può risultare sgradevole perché è troppo umano. Gli preferiamo il cinema perché in sala non si corre il rischio che l’attore, all’improvviso, esca dal personaggio e, anche per un attimo, dica: ehi tu, sì tu in prima fila, che non sei d’accordo? Cosa c’è che non va? Per lo stesso motivo non ci sono più casellanti nei caselli autostradali - l’automobilista detesta il contatto umano fuori dal proprio guscio macchinario – e lo stesso vale per i tanti numeri verdi e tutte le «answer machine». Il nostro regime igienico sociale funziona sulla sterilità e non crediate che succeda solo per ragioni economiche. Anche a teatro si paga il biglietto.
Ecco che la miglior recensione dello spettacolo in cartellone in questi giorni al Verdi di Padova Una banca popolare, testo di Romolo Bugaro, regia di Alessandro Rossetto, la dovrebbe fare lui, Gianni Zonin, l’ex presidente della Bpvi. E’ lui sul palco che, dopo un lunghissimo, interminabile minuto di silenzio, parla e dice la sua. E forse è proprio lui, forse la direbbe davvero quella cosa, di sicuro a qualcuno l’ha già detta, a sua moglie se non altro. Noi non l’abbiamo mai sentita: a parte le scuse ai risparmiatori in una intervista, non ha mai detto niente del genere.
Gli chiederemmo dunque se si è piaciuto, se la pensa proprio così quando, interpretato dal bravo Fabio Sartor, fiero e impenitente, dal palco si rivolge agli astanti e dice: «Li ho creati tutti io questi maghi dell’industria quando non erano nessuno: ho dato 800 milioni di lire a quello che doveva liquidare il fratello prima che regalasse l’azienda all’amichetto di turno; ho finanziato la costruzione di tre villette con piscina solo perché un tizio dell’arredamento voleva mettere a suo agio gli architetti; di un altro, un metalmeccanico dagli occhi arrossati e con le pezze al culo, mi lasciai convincere solo per come aveva disegnato il suo progetto di macchinario su un pezzo di carta a quadretti. Tutti ebbero successo, fecero i soldi, loro con tanti altri. Eppure nessuno di questi mi ha difeso, non una telefonata, nessuno si è fatto vivo con una parola di solidarietà quando le cose sono andate male».
Lo spettatore a disagio di cui sopra, beneficerà della bella trovata registica che sullo sfondo, dietro gli attori, sfila in bianco e nero le immagini di una festa fastosa, la grande bellezza in salsa veneta in una villa palladiana con l’avvocato compiacente, l’imprenditore ebbro, le loro vanesie signore, l’amico primario con i camerieri e le coppe di champagne che girano assieme alle chiacchiere e i pettegolezzi velenosi di un mondo ante crisi di cui s’è persa la memoria. Ed è proprio l’amico primario che esce dalla schermo e risponde alla domanda di Zonin. «Perché nessuno ti ha chiamato? Perché nessuno ti ha mostrato gratitudine? Perché tu li conosci bene, sai cos’erano e sai cosa sono diventati: a nessuno piace essere conosciuto per quello che era». Giusto, a nessuno piace incontrare i testimoni della propria miseria - e Zonin è buon testimone di tante fortune – così che per lui, come per tutti, vale la maledizione del creditore: presta del denaro ed, assieme alla gratitudine, avrai in cambio il rancore; la prima se ne va presto, il secondo resta per tutto il tempo della schiavitù contratta, fino all’estinzione e anche dopo, perché il debito si estingue ma non il ricordo di chi è stato testimone della tua soggezione. Tutto ciò in questa pièce teatrale che il disagio te lo serve su un doppio testo, quello dell’indifendibile e l’altro di farcelo entrare nelle ossa come solo il teatro sa fare.
Al Verdi di Padova lo spettacolo è stato applaudito a lungo, al Goldoni di Mestre qualcuno ha mostrato disappunto. Romolo Bugaro se ne è rammaricato ma non dovrebbe, anzi. Lui non ha raccontato l’altra faccia della medaglia – non ce n’è un’altra - né ha confezionato una contro storia; la medaglia è sempre la stessa, il disastro colpevole di una banca che ha prosciugato i risparmi di decine di migliaia di soci. Alla storia ha solo aggiunto il pezzo che mancava: la crescita tumultuosa delle nostre province fino alla crisi della Lehman Brothers, uno sguardo intimo alla sociologia del capitalismo di relazione che l’ha alimentata, le sue connivenze, le facce grottesche e gli impensabili successi, l’incantamento di un ceto dirigente incapace di immaginare la propria fine. Quello di Zonin innanzi tutto, il banchiere pifferaio che per allontanare i clienti dal precipizio ce li portò tutti. Per lui vale il monologo di Antonio nel Giulio Cesare: «Il male che un uomo fa gli sopravvive. Il bene, spesso, resta sepolto con le sue ossa». O, meglio ancora, quello che disse Clare Boothe direttrice di Vanity Fair al tempo della Grande Depressione: «Nessuna buona azione resta impunita». Mettere in scena quello di Zonin-Sartor non assolve il protagonista, non lo renderà migliore di fronte ai magistrati che lo giudicano per aggiotaggio, ostacolo alla vigilanza della Banca d’Italia e della Consob e falso in prospetto. Serve a noi che altrimenti non lo avremmo mai sentito se non fosse per l’impudicizia e il coraggio di Romolo Bugaro.