Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
EMIGRATI, LA STRETTA INGLESE
ALeeds, importante città industriale dell’Inghilterra dove sono affluiti moltissimi migranti di ogni paese, la preside di una scuola, constatando la Babele linguistica degli studenti e per contrastare il loro analfabetismo nell’idioma di Shakespeare, ha deciso di istituire cattedre di inglese «come lingua straniera»: paradosso e insieme sintomo di uno dei problemi che dopo la Brexit il governo intende risolvere.
Eppure finora l’UK era aperto agli stranieri (e a molte loro usanze diverse da quelle degli autoctoni). Perfino il sindaco di Londra è di origine pakistana. I migranti arrivavano nelle città inglesi anche per imparare la lingua, facendo i lavapiatti o le baby sitter in attesa e con la speranza di un futuro da integrati. Non erano tutti cervelloni brillanti, colti, provvisti di specializzazione come scienziati, ingegneri, professori universitari. Ma in futuro non sarà più così. È in atto una scrematura che in questi mesi subisce una brusca accelerata: resteranno «i migliori», chi non sa bene l’inglese non potrà diventare residente. Per realizzare la scrematura sarà introdotta una specie di patente a punti (almeno 70, in base non solo al possesso della lingua, ma anche alle qualifiche professionali e sociali e al bisogno che la Gran Bretagna può avere dei richiedenti).
Ormai s’è diffuso un effetto domino di paure e insicurezze, che si aggiungono al crescente costo della vita e alle difficoltà di trovar casa, specie a Londra. Tanto che alcuni già pensano di tornare in patria. Anche fra gli italiani? Certo, anche fra loro, oggi tanto numerosi (circa 700.000, tanto che la loro comunità è chiamata «Little Italy»). Anche veneti? Certo, uno su dieci, specie vicentini e trevigiani. Viceversa, noi italiani non respingiamo gli stranieri che non conoscono la nostra lingua (eventualmente cerchiamo di bloccarli per motivi diversi). Eppure parlare bene la lingua del luogo dove si emigra rende più facile l’integrazione, oltre che più ricca culturalmente e psicologicamente la persona. Una ragazza inglese di ritorno in patria dopo un anno passato in Italia s’è detta più «completa» dall’apprendimento di nuove parole (specie nell’ambito dei sentimenti: come «crepacuore» e «struggimento»). Aveva evidentemente intuito che parlare la lingua di un popolo significa anche vivere la sua vita, far parte in un certo senso di quel popolo. È la condizione fondamentale per lavorare bene in quel popolo. È forse anche per questo che in Gran Bretagna, se le aziende avranno interesse a tagliare una fetta di lavoratori, di quella fetta faremo parte anche noi. Se le prospettive future, salvo ripensamenti, saranno quelle di cui si parla, qualcosa è già cominciato: lo provano gli infermieri che in Italia stentano a trovare lavoro, mentre l’Inghilterra li ha richiesti, ma poi bocciati perché non hanno superato il test linguistico. ù
Dunque la tradizionale libera circolazione dei lavoratori dopo la Brexit (se sarà, come pare, «hard Brexit»), sarà considerata «disordine», e di questo disordine il governo inglese intende liberarsi. I nostri giovani dovranno affrettarsi a imparare correntemente l’inglese, o pensare a emigrare in paesi diversi (il Canada? L’Australia?). Adesso ce ne accorgiamo: la Brexit non cambia soltanto la Gran Bretagna, cambia anche l’Europa, la nostra vita, la vita dei nostri figli