Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Covid, Rianimazione vuota «Ora non dimentichiamo»
Ieri al San Bortolo è stato trasferito in reparto anche l’ultimo paziente Danzi: «Adesso siamo preparati, ma spero non tornino i 90 giorni passati»
VICENZA Terapia intensiva volta pagina: anche al San Bortolo, come pure negli altri ospedali vicentini, la Rianimazione non ha più pazienti intubati per Coronavirus. L’ultimo, un 72enne gravissimo da marzo, si è negativizzato e soprattutto è migliorato, quindi è andato in un altro reparto. Il primario Vinicio Danzi – veronese, 57 anni, arrivato a Vicenza a gennaio dalla Terapia intensiva di Cremona non nasconde il sollievo: «Temevamo che arrivasse l’ondata forte come in Lombardia, per fortuna alla fine non è successo. Ma i giudizi di adesso sono tutti fatti col senno di poi: non dimentichiamo quanto è costato quel che è accaduto, in vite umane». Intanto, nelle due Usl il trend dei contagi è buono: i ricoverati sono 32 (sei in meno) e c’è solo un nuovo positivo.
Dottor Danzi, c’è davvero stata la svolta?
«Io lo spero, lo spero tanto. Dipenderà anche dalla nostra capacità di rispettare le regole. E poi vedremo come si comporterà il virus con il freddo, se non sarà aggressivo come è stato».
Come giudica il periodo degli ultimi tre mesi?
«Molto impegnativi, dal punto di vista psicologico, per tutti noi che lavoriamo in ospedale».
Quali casi l’hanno più colpita?
«L’aspetto umano è sempre quello più importante e sentito. Ci sono stati casi di membri della stessa famiglia, deceduti a breve distanza l’uno dall’altro. O persone giovani e con figli, in cui era stata raggiunta la “cima” e si era ricominciato a sperare in un esito positivo, che però alla fine non ce l’hanno fatta. È stato molto difficile: in molti casi si era creato un legame anche con le famiglie, pure se solo per telefono».
Avete appreso di più sul Covid e sul modo di trattarlo?
«Certo, ora lo affrontiamo in modo diverso: rispetto all’inizio molto è cambiato anche nel modo di operare la ventilazione, e sotto altri aspetti. Purtroppo, abbiamo imparato molto anche dai colleghi lombardi, che erano ancora più in prima linea. In Veneto abbiamo creato una rete fra tutte le terapie intensive scambiandoci consigli e il Creu, coordinamento regionale emergenza urgenza, ci ha coordinato e supportato».
Lei pensa che questa emergenza possa tornare?
«Non amo gli estremismi. Penso che sia assurda sia la posizione di chi dice che non ci sarà più nulla, sia chi sostiene che sarà come prima. Manteniamoci guardinghi e speranzosi».
Quanti posti di terapia intensiva sono stati occupati dal Covid-19?
«Abbiamo dovuto “invadere” molte altre aree dell’ospedale ed eravamo pronti ad arrivare a 50, ci siamo fermati ad una trentina. Fortunatamente qui l’ ondata non è arrivata come in Lombardia, ma nessuno poteva saperlo. Il sistema veneto è stato pronto, all’inizio, anche perché vedevamo cosa succedeva “di là”».
C’è chi mette in dubbio l’efficacia di mascherine e dispositivi di protezione. Lei ritiene vadano mantenuti?
«Se per ripartire bisogna mantenere qualche limitazione, facciamolo. Le mascherine e i Dpi non fermano la malattia ma rallentano l’infezione. A Cremona, dove lavoravo, sono arrivati 52 pazienti in pochissimo tempo, con dieci posti letto in Terapia intensiva: il fattore tempo conta. Se al mio reparto arrivano 10 malati in 10 minuti è molto diverso che se mi arrivano in 10 giorni, posso dare una risposta differente. Non dobbiamo dimenticare quello che è accaduto».