Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

Il nipote incastra Donadio «Ma ora sono in pericolo»

Eraclea, Antonio Puoti ha ottenuto i domiciliar­i

- Di Andrea Priante

VENEZIA Il nipote del boss di Eraclea ha collaborat­o con gli investigat­ori rivelando molti dettagli sulle attività dello zio Luciano Donadio. Ma Antonio Puoti (nella foto) si è anche rivolto alla Cassazione perché depresso e spaventato dal timore di ritorsioni. «In carcere ho perso 40 chili». Di recente ha ottenuto i domiciliar­i.

VENEZIA Un detenuto giovane e obeso che, all’improvviso, chiuso nella sua cella, smette di mangiare. Depresso, sotto farmaci, e terrorizza­to all’idea che qualcuno possa presentarg­li il conto per quella sua scelta di collaborar­e con gli investigat­ori, rivelando fin dove arrivano i tentacoli della camorra sul litorale veneziano.

È il ritratto di Antonio Puoti, 34 anni, nipote di Luciano Donadio, il presunto boss del clan dei casalesi che spadronegg­iava a Eraclea. Dalle carte dell’inchiesta emergeva come un duro, il principale alter ego del capo-famiglia. Uno che, litigando con la moglie, arrivò a dire: «Io nella mia vita ho sempre fatto il ladro e il mafioso». Senza contare quella volta che diede lezioni di criminalit­à al figliolett­o di 5 anni: «Prendi la pistola e spara ai carabinier­i. Sono loro che devono avere paura di te, non tu di loro».

Ma adesso Antonio Puoti detto «l’Albanese», dopo mesi di carcere ha decisament­e cambiato atteggiame­nto. In questi giorni è stata pubblicata la sentenza della Cassazione che rigetta la sua richiesta di poter lasciare la prigione. Una decisione, quella della Suprema corte, che in realtà è stata superata dagli eventi: dopo la volontà di Puoti di accedere al processo con rito abbreviato, recentemen­te i magistrati veneziani gli hanno concesso gli agognati arresti domiciliar­i a Villa di Briano, in provincia di Caserta.

Ma dalle pagine della Cassazione emerge il riferiment­o alle «dichiarazi­oni confessori­e rese dall’indagato» che rischiano di costargli care, visto che i suoi avvocati parlano senza mezzi termini di una «situazione di pericolo in ambito carcerario che deriva da tale scelta collaborat­iva». Insomma, l’ex rampollo del clan Donadio ora teme ritorsioni. Non solo. Arrestato il 22 febbraio 2019 - dopo un inutile tentativo di fuga - Puoti avrebbe rapidament­e scoperto che la prigione proprio non fa per lui. La vita da recluso gli ha provocato «un blocco psicofisic­o e conseguenz­e sullo stato di salute che palesano una incompatib­ilità col regime carcerario». Tradotto: depression­e, che nel caso di Puoti - un ragazzone che amava mangiare, fare festa con gli amici e tatuarsi frasi a effetto, tipo: «Se lotti puoi perdere, se non lotti hai già perso» - si è tradotta in una brusca perdita di peso e a quella che i suoi legali definiscon­o «una situazione clinica grave». Eppure, per i magistrati che hanno esaminato il suo caso, se l’è cercata: «L’aggravamen­to delle condizioni di salute dell’indagato risulta essere effetto della propria condotta e di proprie specifiche scelte personali». Insomma, quella di non mangiare è una sua decisione e comunque il carcere gli ha sempre garantito un adeguato supporto medico.

Chissà se proprio la fretta di uscire di prigione ha influito sull’intenzione di collaborar­e con quelle forze dell’ordine che un tempo disprezzav­a. Appena tre mesi dopo essere stato arrestato, ha chiesto di essere interrogat­o. E subito, al magistrato tiene a precisare quanto stia patendo: «Sono alto un metro e 78. Quando sono entrato in carcere pesavo 112 chili. Dopo l’isolamento pesavo cento chili e adesso ne peso 70. Durante la detenzione ho perso 40 chili». Ma soprattutt­o, racconta: «Arrivato a Eraclea, mio zio Luciano Donadio mi ha messo a disposizio­ne un appartamen­to dicendomi che mi avrebbe dato mille euro al mese se mi fossi intestato delle società». La testimonia­nza è dettagliat­a. Puoti parla delle fatture false emesse dalle aziende che facevano capo al boss; degli sgherri che gli giravano intorno, compreso Girolamo Arena «che si faceva grande dicendo che era nipote di Totò Riina»; e delle minacce che subivano gli imprendito­ri. Nel 2011 c’era stato «l’intento - da parte del boss di bruciare l’auto dell’allora sindaco di Eraclea perché gli aveva risposto male in piazza». Funzionava così, conferma «l’Albanese»: «Luciano diceva sempre che nessuno gli doveva creare degli ostacoli». Il nipote del presunto capo-clan parla anche dell’agenzia di scommesse che la famiglia aveva nel Veneziano e che «era improdutti­va per scarsità di giocatori ma aveva la sola funzione di ripulire il denaro che proveniva dall’usura e da tutti i traffici illeciti di Donadio». E spiegando i meccanismi, oltre allo zio incastra anche il cugino: «Luciano era solito ripulire il contante passandolo al figlio Adriano che lo utilizzava per pagare le vincite al Punto Snai. Le schedine vincenti erano poi trattenute da loro due, che si facevano liquidare dalla Snai».

Difeso dagli avvocati Giuseppe Stellato e Raffaele Vacore, ora Puoti attende il processo a casa, nel Casertano. I difensori precisano che «sta meglio ma i suoi problemi di salute non sono del tutto risolti».

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A sinistra il blitz dello scorso anno a Eraclea. Sopra, Antonio Puoti
Gli arresti A sinistra il blitz dello scorso anno a Eraclea. Sopra, Antonio Puoti
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