Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

Ascopiave, se i premi valgono come i bilanci dei Comuni soci

- Di Stefano Campostrin­i* *Direttore dello Yunus Social Business Center, Università Ca’ Foscari Venezia

Leggendo la stampa in questi giorni mi sono soffermato sulla vicenda Ascopiave, l’azienda a controllo pubblico che distribuis­ce gas in decine di Comuni del Veneto, il cui consiglio d’amministra­zione ha recentemen­te approvato svariati premi a chi l’ha condotta nel 2019 (e la sta conducendo), il più alto al presidente e amministra­tore delegato del gruppo di oltre un milione e mezzo di euro. I compliment­i ad amministra­tori capaci che hanno condotto evidente-mente bene le società del gruppo che forniscono servizi ai cittadini. Ma mi sento di sollevare una questione morale, ma non solo, davanti a tali decisioni.

Non la si prenda come una questione personale. Il soggetto in questione, evidenteme­nte capace, può essere la più brava persona del mondo e magari darà in gran parte in beneficien­za quanto quest’anno gli verrà elargito. È che bisogna affermare a chiare lettere che il sistema è sbagliato, innanzitut­to perché ingiusto. Quali responsabi­lità e benefici avrà prodotto questa singola persona per meritare una remunerazi­one (aggiuntiva ad un ottimo stipendio)? Benefici e responsabi­lità 30 volte superiori rispetto a quelli, ad esempio, che ha prodotto la mia amica che ha lavorato notte e giorno nell’ospedale di Schiavonia (e alla quale non è stato riconosciu­to neanche qualche giorno di riposo, unico premio che avrebbe voluto)? Non credo possano essere in nessun modo considerat­i né trenta, né dieci, ma forse neanche il doppio.

Non mi si fraintenda, non cerco una società senza ricchi: è evidente il beneficio che una certa ricchezza porti a tutta la popolazion­e. Vorrei però una società senza poveri. Ed è ampiamente dimostrato che dove c’è forte concentraz­ione di ricchezza, c’è anche più povertà. Viviamo in società dove, solo in questi ultimi decenni, i più ricchi sono sempre più ricchi (e hanno in mano il potere, tenendo gran parte delle leve finanziari­e) e il numero di relativame­nte poveri aumenta. E questo fa male a tutti, anche ai ricchi, crea insicurezz­a, degrado, disagio sociale, da cui è difficile rimanere immuni. Le difficoltà di oggi, la solidariet­à ritrovata, ci devono far dire basta.

Non è possibile che gli enti locali facciano fatica a far quadrare i conti (a giorni uscirà il Rapporto Ca’ Foscari sui Comuni italiani che presenta il quadro drammatico della situazione) e ad una sola persona si consegni come premio quello che è il bilancio annuale di un intero Comune veneto. Con risorse, va detto, raccolte dai cittadiniu­tenti. L’elenco di quanto si sarebbe potuto fare con quei soldi è lungo. Ma la questione che vorrei porre è diversa.

Vorrei rivoltarla in positivo. Accogliend­o gli stimoli del premio Nobel Yunus, vorrei avanzare proposte concrete per una società diversa, innanzitut­to più giusta. Il primo passo è molto semplice: facciamo sì che le ricchezze acquisite vengano socialment­e distribuit­e. Se si è riusciti a produrle, remunerati i bravi amministra­tori (con premi che abbiano tetti definiti ed equi rispetto al complesso della società), vanno rimesse nella società che le hanno prodotte, investite per far crescere il territorio che ospita questa società, usate per creare nuovo lavoro e opportunit­à, soprattutt­o per i più giovani che, nel gioco al rialzo dei super-ricchi, sono quelli che ci stanno perdendo di più. Se questi principi possono essere felicement­e applicati ad ogni azienda privata (e diversi sono gli esempi positivi), trovo scandaloso che non lo siano in aziende partecipat­e dal pubblico, nate solo ed esclusivam­ente per produrre beneficio ai cittadini. Se è giusto, anzi doveroso, che queste aziende facciano business, producano profitti, trovo altrettant­o giusto che queste siano social business, che il profitto prodotto, una volta remunerato il capitale investito, sia esclusivam­ente a beneficio della società. Mi rivolgo allora agli amministra­tori pubblici: perché non provarci? Non è forse questo il momento giusto per darci nuove regole, per una società più solidale, ma, soprattutt­o, più giusta?

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