Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
DIECI ANNI DI DOMANDE
Quando la mattina del primo novembre di dieci anni fa il Veneto si svegliò sotto la tempesta, un’intera generazione scoprì per la prima volta la violenza dell’acqua. Per questa gente, nata dopo il 1966, resta l’alluvione che ha creato più danni e coinvolto l’area più vasta: 142 chilometri quadrati di allagamenti divisi tra 130 comuni di tutte le province (con due vittime). Sì, c’erano state le terribili trombe d’aria all’Heineken Festival e l’alluvione di Mestre (giugno e settembre 2007), c’era stato il tornado che aveva scoperchiato centinaia di case a Riese (giugno 2009) ma la dimensione territoriale ridotta aveva spento presto le domande apocalittiche e trattenuto le polemiche nei confini urbani. Le stesse domande dopo l’alluvione del 2010 hanno preso vigore e acceso un dibattito generale sulla prevenzione in Veneto, sensibilizzato l’opinione pubblica e migliorato le difese che oggi possono contare su qualche centinaio di milioni spesi in bacini di laminazione e opere di salvaguardia. A quanto pare utili e funzionanti grazie al buon lavoro delle imprese e alle scelte dei governanti ma non ancora sufficienti a farci dormire sonni tranquilli. Anzi, per dirla tutta, nonostante i risultati, dormiamo peggio.
Qui sarebbe il caso di porsi la domanda delle domande: possiamo davvero eliminare a queste latitudini il rischio di catastrofi idrogeologiche? E in subordine: i cambiamenti macroclimatici riservano a quest’area del pianeta un futuro diverso?
Lecito porsele visto che il 2010 non è rimasto un unicum e soprattutto gli anni e i mesi di tregua tra un evento calamitoso e l’altro stanno cominciando a ridursi. La serie storica, che dell’osservazione scientifica rimane un caposaldo, è piuttosto inquietante.
Grigia e talvolta nera come il colore di un cielo che a volte ci sembra di non aver mai visto prima. Vale la pena di ricordarli questi eventi a cominciare dalla notte del 2 agosto 2014 quando una bomba d’acqua cadde con tutta la sua potenza nella zona di Refrontolo facendo tracimare un piccolo torrente, il Lierza, e spazzando via in pochi istanti persone, strutture e automobili durante una festa paesana. La tragedia del Molinetto della Croda, così viene ricordata, è quella che ha causato il maggior numero di vittime, ben quattro.
Parlando di tristi primati non si può non ricordare il tornado della Riviera del Brenta (8 luglio 2015) che forse ci ha portato le immagini di devastazione peggiori: una striscia di terra schiaffeggiata dalla mano di un gigante che ha lasciato a pochi metri di distanza case intatte con i vasi di fiori in ordine e case ridotte a cumuli di macerie. Un’altra bomba d’acqua a Cortina nel 2017 - capace di far esondare il Bigontina e sporcare di paura e morte la Regina delle Dolomiti - e si arriva all’autunno del 2018, quello che su quelle stesse montagne rimane per ora il più scioccante del nuovo millennio. Peggiore perché oltre all’acqua ha portato la violenza di un vento di cui nessuno aveva mai nemmeno sentito parlare. Non una tromba d’aria, localizzata, ma un vero tornado (o un vero effetto tornado) con raffiche di vento a duecento chilometri orari che sono entrate
nelle valli inseguendosi e spingendosi per abbattere in una notte quasi un milione di alberi.
Quelle di Vaia sono immagini che hanno fatto il giro del mondo ma mediaticamente, e non poteva essere che così, l’evento alluvionale veneto che più ha fatto parlare il mondo negli ultimi cinquant’anni è stata l’Acqua Granda di Venezia del 12 novembre scorso: 187 centimetri, quasi una copia di quella che nel ’66 ha aperto la stagione del Mose e che ora potrebbe finalmente chiuderla.
Venezia in fondo ha una sua storia, ha innanzitutto il primato di esistere e la salvaguardia di una città unica ha sempre necessitato di corsie preferenziali. Corsie di cui non godono altre città, come ad esempio Verona, che oggi s’interroga sulla dimensione e sui paradossi di un fenomeno sconosciuto. E qui torniamo alla domanda delle domande di cui sopra - ovvero la possibilità o meno di mitigare gli effetti di eventi calamitosi nuovi per dare la risposta non già della scienza (che peraltro ancora non c’è) quanto del buon senso. Bisogna provarci. Anche quando la serie storica si fa inquietante e la fenomenologia rivoluzionaria sembra incoraggiare all’arrendevolezza o a ragionamenti da contadino medievale. Magari un giorno riusciremo a prevedere con esattezza l’ora e la forza delle bombe d’acqua, le piene dei fiumi, magari disegneremo in maniera diversa le nostre città e proteggeremo meglio le nostre campagne come i moderni contadini già riescono a fare. Se il teatrino non è quello di «piove, governo ladro», se non si limita allo sfogatoio, ben vengano le polemiche. In fondo sono quelle che hanno portato i bacini di laminazione e un giorno chissà.