Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

I soldi del figlio per pagare i boss

Il racconto di un imprendito­re padovano e il filo rosso che porta al boss Iovine

- di Alberto Zorzi

Ha ottenuto il primo «prestito», al 10 per cento mensile, nel 1999. Poi è tornato tra le grinfie del clan nel 2010 e ne è uscito solo con i soldi prestati dal figlio. Un imprendito­re ha raccontato ieri in aula bunker la sua storia di «vittima» del clan dei casalesi di Eraclea.

MESTRE «Ho iniziato ad avere problemi di liquidità nel 1998/1999, perché un’impresa non mi aveva pagato e la banca mi aveva abbandonat­o. Luciano Donadio lo conoscevo già perché mi forniva dei piastrelli­sti e mi disse che c’era un tal Antonio Buonanno di Casal di Principe che mi poteva prestare dei soldi. Mi disse “sappi che lui non scherza e devi dargli il 10 per cento mensile”». È così che Giorgio Minelle, imprendito­re padovano titolare della «Boutique della piastrella», è entrato nelle «grinfie» del clan dei casalesi di Eraclea. E ne è uscito solo grazie anche a 36 mila euro – gli ultimi per gli «strozzini» – che gli diede il figlio. Lo ha raccontato ieri in aula bunker a Mestre, dov’è in corso il processo a 46 imputati a vario titolo di aver fatto parte della «banda Donadio». Minelle, peraltro, ha già patteggiat­o una pena di due anni perché da vittima si era poi trasformat­o in complice del clan, indirizzan­do a Donadio un amico che doveva riscuotere un credito di 100 mila euro.

«Sono andato a Casal di Principe da Buonanno, è venuto un suo parente a prendermi fuori dall’autostrada ha proseguito l’imprendito­re - Lui mi ha dato 75 milioni di lire in contanti, io gli assegni a garanzia. Poi ogni mese pagavo a suo fratello Raffaele gli interessi del 10 per cento». Sia Antonio che Raffaele Buonanno sono imputati nel processo. Ma non è finita qui, perché dopo il fallimento della Boutique nel 2001 e dopo che gli ci volle un anno e mezzo per estinguere il debito, Minelle restò legato a doppio filo con il presunto boss. Intanto perché, quando nel 2003 aprì una nuova società quasi omonima, per un anno Donadio fu l’amministra­tore («poi la banca Antonvenet­a ci tolse il fido perché non c’era più lui a fare da garante», ha osservato amaro); poi perché aveva accettato di entrare in un giro di false fatture, su cui il boss intascava l’Iva. Nel 2010, comunque, Minelle entra ancora in difficoltà e questa volta il prestito è di 140 mila euro in tre tranche, con un tasso del 7 per cento. «Ho finito di pagare i debiti con Antonio Buonanno nel 2013, grazie al prestito di mio figlio - ha raccontato - Li ho portati io direttamen­te a Casal di Principe e lui mi ha offerto la pizza perché era appena stato scarcerato». Con Donadio invece aveva un conto di 60 mila euro, chiuso nel 2014 con un’operazione – il finto acquisto in leasing di un mezzo – che gli è costata una condanna a un anno e 4 mesi per bancarotta a Padova. Quando al fatto per cui ha patteggiat­o, ha ammesso di aver presentato Donadio all’amico imprendito­re Vittorio Orietti per il suo credito e che poi quest’ultimo era andato dal debitore con uno degli uomini del clan, Girolamo Arena, che l’aveva minacciato («siamo i casalesi») e si sarebbe dovuto tenere la metà.

Il nipote di Donadio, Giacomo Fabozzi, in un dialetto napoletano spesso strettissi­mo («sembra di essere in un film di Troisi», è sbottato a un certo punto l’avvocato Rodolfo Marigonda), ha invece raccontato dei rapporti tra il boss e Fabio Gaiatto, il finto broker di Portogruar­o condannato a 10 anni per aver truffato 3 mila clienti. Tra questi Samuele Faè, faccendier­e (e anche lui imputato nel processo) che gli avrebbe affidato quasi 10 milioni di euro e che «con mio zio aveva quasi un rapporto tra padre e figlio». «Abbiamo incontrato più volte Gaiatto, ma lui diceva che stava facendo altre operazioni e non aveva liquidità», ha spiegato Fabozzi. Poi un giorno si presentano al punto Snai di Eraclea, di proprietà di Donadio, tre napoletani dicendo che erano casalesi e li mandava il boss Salvatore Iovine per dire che i 10 milioni di Gaiatto sarebbero stati loro. «Al che mio zio gli ha detto che lui Salvatore lo conosceva da quando erano bambini e ci avrebbe parlato - ha proseguito - Così siamo andati a Ostia e quando Iovine ha visto mio zio gli ha detto “ciao Lucia’, da quanto tempo non ci vediamo”. All’inizio disse che erano uomini suoi, poi quando mio zio fece i nomi disse che si sarebbe informato. Per me c’era qualcosa di strano». Alla fine ci sarebbe dovuto essere un accordo per fare fifty-fifty, ma Donadio venne a sapere che i napoletani qualche soldo l’avevano incassato dal broker. «Si arrabbiò», ha detto Fabozzi. Poi Gaiatto, nel settembre 2018, fu arrestato.

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