Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Le mascherine stroncano la carica virale
Più bassa è la quantità di virus che riceviamo al momento del contagio, meno gravi potranno essere i sintomi della malattia. Per questo, come ribadisce uno studio dell’ospedale Sacro Cuore di Negrar (Verona), l’utilizzo delle mascherine e il distanziamento possono abbassare anche di mille volte la carica virale.
VERONA La mascherina serve. Anche se si dovesse venire infettati dal Coronavirus. È quanto emerge da uno studio effettuato dall’Istituto di ricovero e cura a carattere scientifico Sacro Cuore - Don Calabria di Negrar, collegato all’omonimo ospedale in provincia di Verona. Si tratta di un’analisi retrospettiva, sui 373 pazienti che hanno avuto accesso al pronto soccorso del Don Calabria, uno degli ospedali con reparti Covid della provincia di Verona, dal primo marzo al 31 maggio. L’obiettivo era verificare se la diminuzione della carica virale, dovuta all’utilizzo di dispositivi di protezione, avesse influito non solo sul numero assoluto di pazienti Covid che si sono rivolti al Pronto Soccorso, ma anche sulla gravità della malattia. «A metà marzo il Paese è entrato in lockdown e il nostro pronto soccorso nello stesso mese ha registrato 281 accessi di persone positive che sono scese di oltre un terzo (86) in aprile e a 6 a maggio - spiega l’infettivologa Dora Buonfrate -. Nello stesso periodo la percentuale dei pazienti per i quali si è reso necessario un ricovero in terapia intensiva è passata dallo 6,7% a marzo, 1,1% ad aprile e zero a maggio».Un calo direttamente collegato al calo della quantità di virus rilevata nei tamponi «Fino a mille volte inferiore —fa sapere la biologa Chiara Piubelli, responsabile della ricerca biomedica —. Cosa che conferma quanto supposto da studi precedenti: una bassa carica virale corrisponde a una malattia meno grave». E la mascherina? Secondo lo studio, pubblicato sulla rivista specialistica «Clinical Microbiology and Infection» la diminuzione della carica virale non può essere imputata né alla tempistica con cui è stato effettuato il tampone né alle terapie messe in atto sui pazienti. «L’intervallo di tempo tra l’insorgenza dei sintomi e il test molecolare non è cambiato significativamente nel tempo — precisa Piubelli —: una media di sette giorni a marzo e di cinque giorni ad aprile. Inoltre la gestione del paziente è stata parzialmente modificata nel corso della pandemia, ma la valutazione clinica utilizzata per decidere il ricovero in ospedale e in terapia intensiva è rimasta sostanzialmente la stessa». Indizi che puntano alla maggiore diffusione dell’utilizzo delle protezioni personali: anche in caso di contagio, una percentuale di virus ridotta può fare la differenza tra un caso acuto e un paucisintomatico, se non asintomatico.«In questo modo — è la conclusione dei ricercatori — si confermano le misure di contenimento del virus: uso della mascherina, igiene frequente delle mani e distanziamento. Solo così possiamo ridurre la carica virale sui contagiati e fare in modo che il sistema sanitario non vada in crisi per il ricorso agli ospedali, in particolare alle terapie intensive. E insieme scongiurare nuove drastiche misure di chiusura». Buonfrate e Piubelli, infine, toccano anche la questione che da marzo anima le discussioni degli esperti (e non solo). Il virus è mutato? «Ci sono stati dei cambiamenti a livello genetico, ma non hanno influito sul fattore contag io sità».(d.o .)