Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
IL PRIMO DEGLI UMILI E LA CHIESA
«Quanto dura un attim o», è la storia controversa di Pablito, l’autobiografia scritta a quattro mani da Paolo Rossi con la moglie Federica Cappelletti, una vicenda di profonda umanità, fatta di essenzialità, fede semplice, dispensata con sorrisi,di un «fuoriclasse, mai personaggio», ricordata ieri in Cattedrale a Vicenza durante le esequie del campione mondiale. Momento emblematico, nella eccitazione mediatica di queste giornate. Con la Chiesa a mediare, ad offrire pure a chi non crede, una pacata attenzione sul valore dell’uomo e sulla continuità della vita. Tanta commozione attorno alla bara, alla maglia azzurra che tanti sogni ha generato, aiutando a cogliere pure una identità nazionale. Attorno, le mani congiunte, le carezze tra Federica e le loro bimbe. Appunto, una occasione per riflettere. Per richiamare i versi, profondi, di un pastore inglese, Henry Scott Holland, composti nel 1910, per i funerali di Edoardo VII: «La morte non è nulla. Non conta, Io me ne sono solo andato nella stanza accanto...
Non è successo nulla. Tutto resta esattamente com’era…. Quello che eravamo l’uno per l’altro lo siamo ancora…Sorridi, pensa a me e prega per me…». La vita non è sempre quella di prima. Tenerezza purificata.
La Chiesa, accogliente, è riuscita ad offrire ancora occasioni di mediazione per superare i distanziamenti, condividere pensieri, valori. Ha dilatato l’attimo. Ha promosso dialogo. Ha offerto testimonianze di tolleranza.
Lo sta facendo tutti i giorni. Tollera perfino i divieti (dei Dpcm). Preferirebbe consigli, e condivisioni. Resta in ascolto. Si accinge ad anticipare alle 20/20.30 la prossima «messa di mezzanotte», quella che a Natale annuncia la «buona notizia». Pronta a far voti e invocare protezione e intercessione, in tempi di pandemia.
In questo Avvento, così debole di ritualità, è capace di cogliere doni e occasioni (come l’ultimo incontro con Paolo Rossi ed i suoi affezionati estimatori in un Duomo, a Vicenza, contingentato, con ripresa in diretta televisiva per soddisfare le attese più vaste del grande pubblico) continua a coltivare speranza e sollecitare responsabilità. Verso un nuovo Natale, orfano di utile convivialità, cercando almeno di fare «buona» comunicazione.
Una missione, come ha ricordato il Patriarca di Venezia, Francesco Moraglia, al trentesimo anniversario di Telechiara, nella Basilica di Monte Berico: «Fare buona comunicazione vuol dire anche essere capaci di esporsi, con coraggio, per raccontare a tutti le realtà di oggi, quindi aiutare - con onestà, limpidezza e massimo dell’obiettività possibile - ogni persona ad orientarsi nelle questioni rilevanti, nelle vicende e nei fatti della cronaca, e della storia, cercando di relazionarsi al meglio con gli altri senza trattare nessuno come nemico, anche se vi sono in ballo concezioni della vita o, semplicemente, opinioni differenti, considerando ognuno come interlocutore da rispettare».
Giorni prima, il Cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato di Papa Francesco e vicentino anche lui, celebrando i settantacinque anni del settimanale diocesano, «La Voce dei Berici», preoccupato dell’indifferenza che non aiuta a fermentare la speranza nell’umanità, aveva riconosciuto che la stampa «avrà un futuro se saprà valorizzare le caratteristiche peculiari che gli altri mezzi, per loro natura, non hanno e non potranno avere, a cominciare dalla capacità di suscitare riflessione, con tempi dilatati, che consentono l’elaborazione del pensiero critico e ritmi personalizzati». E poi non ha mancato di invitare, anzi sollecitare, a «coltivare il gusto dell’incontro», per «contribuire a formare le coscienze ed educarle alla vita democratica», a condizione che non si intenda «l’opinione pubblica come una identità amorfa, ma con dei tratti ben precisi che corrispondono a quelli della nostra gente».