Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

Mostre, murales, piazze e l’Olimpico: così Paolo Rossi vive ancora con noi

Morto un anno fa, fioccano le iniziative per celebrare il grande campione

- di Daniele Rea

Non Pruzzo, il bomber della Roma, ma lui. A pronunciar­e quelle due parole, semplici e proprio per questo tanto difficili da dire, è Paolo Rossi. Scusa e grazie. Lui che ha segnato sei gol in tre partite con Brasile, Polonia e Germania. Poteva chiedere un monumento equestre davanti al Colosseo e gli avrebbero detto di sì. Ma lui, subito, ha pensato solo al suo compagno di squadra e al suo commissari­o tecnico. E questo, a un anno dalla sua scomparsa, era il 9 dicembre dell’anno di (pochissima) grazia 2020, fa capire più di centomila parole chi fosse, davvero, Paolo Pablito Rossi.

Dodici mesi senza Paolo. Dodici mesi senza una gran bella persona, semplice e di grande cuore. E questo vale senza dubbio più di ogni, pur eccezional­e, qualità tecnica. Un anno in cui Pablito non è mai stato dimenticat­o. Anzi. Murales, monumenti, decine di migliaia di cartoline con la sua foto distribuit­e a Vicenza, serate, trasmissio­ni tv, oggi la commemoraz­ione a Zurigo, al museo Fifa, alla presenza dei familiari e di alcuni tra i suoi compagni al Mondiale di Spagna. E ancora, la proposta arrivata fino in Parlamento per dedicargli lo stadio Olimpico, a Roma. Come Maradona, altra stella che si è spenta precedendo Rossi solo di una ventina di giorni, pur se due personalit­à in campo e fuori più lontane sono difficili da immaginare. Momenti pubblici, memoria collettiva ma, soprattutt­o, ricordi personali, intimi, privalo tissimi. Ricordi di chi lo ha visto giocare nei suoi esordi al Lanerossi Vicenza, poco più che ventenne, dove un colpo da fuoriclass­e di Gibi Fabbri («ragazzo, tu farai il centravant­i», «io, mister?», «sì, tu») cambierann­o la storia del Vicenza, quella del «ragazzo» e anche quella del calcio italiano. Ricordi di chi ha seguito a Perugia, poi alla Juventus e infine nella parabola discendent­e al Milan e, omega della carriera, in riva all’Adige al Verona.

Tanto, tantissimo Veneto nella vita di questo toscano atipico, sorridente per quanto timido e con due occhi vivi e sinceri, di chi ha sempre amato la vita in ogni suo singolo istante, anche se motivi per maledirla ne avrebbe avuti più di uno. No, non è stato dimenticat­o da nessuno Rossi in questi dodici mesi, anzi il suo ricordo è stato coltivato e fatto crescere. E non solo per quei tre gol al Brasile di Zico e Falcao, ma perché si percepiva che dietro al campione c’era l’uomo. Solido per quanto in campo sembrasse bastevole un soffio d’aria a buttarlo giù. Chi ha scavallato il mezzo secolo non può non avere marchiati dentro quei due Mondiali, Argentina 78 e Spagna 82. Anni grigi, di piombo. Crisi economica, inflazione al galoppo, governi fragili, terrorismo, stragi. Anni molto difficili, c’era voglia di scendere in piazza, per una volta, a fare festa. Festa e basta, con la voglia basica di avere un motivo per essere felici senza chiedersi perché. E anche per ritrovare i pezzi di quel puzzle scomposto che era l’Italia di quegli anni. Quella Nazionale, la Nazionale di Rossi, contribuì per la sua parte. E che parte. E, per come tutte le cose più care e più belle, ci si accorge di quanto importanti fossero solo quando non ci sono più. Ci manca, il sorriso sereno di Paolo Rossi, più di quanto ci manchino i suoi gol. Anche se, fatalità, a questa Italia che va a caccia di un pass per il Qatar manca, soprattutt­o, un centravant­i come lui. Ma ora, forse, ci mancano soprattutt­o quei «grazie» e «scusa».

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In azione Paolo Rossi contro il Brasile al Munsial 82

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