Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Mostre, murales, piazze e l’Olimpico: così Paolo Rossi vive ancora con noi
Morto un anno fa, fioccano le iniziative per celebrare il grande campione
Non Pruzzo, il bomber della Roma, ma lui. A pronunciare quelle due parole, semplici e proprio per questo tanto difficili da dire, è Paolo Rossi. Scusa e grazie. Lui che ha segnato sei gol in tre partite con Brasile, Polonia e Germania. Poteva chiedere un monumento equestre davanti al Colosseo e gli avrebbero detto di sì. Ma lui, subito, ha pensato solo al suo compagno di squadra e al suo commissario tecnico. E questo, a un anno dalla sua scomparsa, era il 9 dicembre dell’anno di (pochissima) grazia 2020, fa capire più di centomila parole chi fosse, davvero, Paolo Pablito Rossi.
Dodici mesi senza Paolo. Dodici mesi senza una gran bella persona, semplice e di grande cuore. E questo vale senza dubbio più di ogni, pur eccezionale, qualità tecnica. Un anno in cui Pablito non è mai stato dimenticato. Anzi. Murales, monumenti, decine di migliaia di cartoline con la sua foto distribuite a Vicenza, serate, trasmissioni tv, oggi la commemorazione a Zurigo, al museo Fifa, alla presenza dei familiari e di alcuni tra i suoi compagni al Mondiale di Spagna. E ancora, la proposta arrivata fino in Parlamento per dedicargli lo stadio Olimpico, a Roma. Come Maradona, altra stella che si è spenta precedendo Rossi solo di una ventina di giorni, pur se due personalità in campo e fuori più lontane sono difficili da immaginare. Momenti pubblici, memoria collettiva ma, soprattutto, ricordi personali, intimi, privalo tissimi. Ricordi di chi lo ha visto giocare nei suoi esordi al Lanerossi Vicenza, poco più che ventenne, dove un colpo da fuoriclasse di Gibi Fabbri («ragazzo, tu farai il centravanti», «io, mister?», «sì, tu») cambieranno la storia del Vicenza, quella del «ragazzo» e anche quella del calcio italiano. Ricordi di chi ha seguito a Perugia, poi alla Juventus e infine nella parabola discendente al Milan e, omega della carriera, in riva all’Adige al Verona.
Tanto, tantissimo Veneto nella vita di questo toscano atipico, sorridente per quanto timido e con due occhi vivi e sinceri, di chi ha sempre amato la vita in ogni suo singolo istante, anche se motivi per maledirla ne avrebbe avuti più di uno. No, non è stato dimenticato da nessuno Rossi in questi dodici mesi, anzi il suo ricordo è stato coltivato e fatto crescere. E non solo per quei tre gol al Brasile di Zico e Falcao, ma perché si percepiva che dietro al campione c’era l’uomo. Solido per quanto in campo sembrasse bastevole un soffio d’aria a buttarlo giù. Chi ha scavallato il mezzo secolo non può non avere marchiati dentro quei due Mondiali, Argentina 78 e Spagna 82. Anni grigi, di piombo. Crisi economica, inflazione al galoppo, governi fragili, terrorismo, stragi. Anni molto difficili, c’era voglia di scendere in piazza, per una volta, a fare festa. Festa e basta, con la voglia basica di avere un motivo per essere felici senza chiedersi perché. E anche per ritrovare i pezzi di quel puzzle scomposto che era l’Italia di quegli anni. Quella Nazionale, la Nazionale di Rossi, contribuì per la sua parte. E che parte. E, per come tutte le cose più care e più belle, ci si accorge di quanto importanti fossero solo quando non ci sono più. Ci manca, il sorriso sereno di Paolo Rossi, più di quanto ci manchino i suoi gol. Anche se, fatalità, a questa Italia che va a caccia di un pass per il Qatar manca, soprattutto, un centravanti come lui. Ma ora, forse, ci mancano soprattutto quei «grazie» e «scusa».