Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

IL FATTORE MASCHIO

- Di Alessandro Russello

Ci sono donne condannate a morte. Studiano, lavorano, amano, hanno mariti, compagni, figli, genitori, amiche per la vita. Ma moriranno per una sentenza del tribunale orrorifico scritta nella testa di un uomo. Di certi uomini. Violenti, protervi, ignoranti, colti, ricchi, poveri, privi comunque di una qualsiasi educazione sentimenta­le, fragili nei rapporti e incapaci di gestire il «no» alla fine di un matrimonio, una storia, il divorzio, l’affido dei figli, una lite per i soldi o per un pezzo di casa. Uomini che non parlano con le parole ma con le mani, i coltelli, le pistole, perfino le granate com’e accaduto nel Vicentino con l’ennesimo (doppio) femminicid­io che ha trascinato in una tragedia disumana quattro ragazzi, fratelli, sorelle, madri, padri, nuovi compagni e uomini diversi perché per fortuna la maggior parte degli uomini non è così. Una tragedia alla quale in Veneto ha fatto seguito, a poche ore di distanza, un terzo femminicid­io, il marito che uccide la moglie strangolan­dola togliendos­i poi la vita.

Dire che ci sono donne «condannate a morte» è terribile ma è fuori da ogni ipocrisia. Perché fotografa il passato, racconta il presente, è un’atrocità che purtroppo ha futuro.

La giustizia? C’è ma non basta. Si denuncia, si arresta, si fanno i processi di primo, secondo ed ennesimo grado, si condanna, si carcera, si fanno i ricorsi, l’uomo violento esce, fa il «percorso», si «ravvede», poi è recidivo, lo si riarresta, lo si rinchiude di nuovo in modo preventivo e poi un altro processo. Ma prima o poi esce. Prima o poi. «Non si può tenere in carcere un uomo per sempre se ha pagato i suoi debiti con la giustizia», ha chiosato il presidente del tribunale di Vicenza rispondend­o al grido di accusa e dolore della famiglia e del nuovo compagno di Lidija Miljkovic («Aspettiamo i giudici al funerale»).

Chi era Zlatan Vasiljevic, l’uomo che in una manciata di minuti ha ucciso l’ex moglie e la nuova (ex) compagna Gabriela Serrano? Due metri di stazza, bevitore seriale, manesco e vigliacco, prevaricat­ore fino allo stupro, capace di minacce abominevol­i al punto da pensarle impossibil­i ma più vere del vero. «Vi ucciderò tutti», diceva. Probabilme­nte l’avrebbe fatto, probabilme­nte era pronto ad uccidere anche i figli. Nel suo orrore si è fermato a metà. Ma lo diciamo oggi, a carte scoperte. Il «prima» è tutta un’altra storia: dalla pur non piena sensazione di Lidija che il suo ex uomo se la stava «mettendo via» fino alla speranza che il suo recupero in un centro che cura gli uomini violenti si fosse davvero compiuto. Al punto da non denunciarl­o più e facendogli rivedere i figli come forma di attenuazio­ne della sua possibile violenza. Tutto giusto e tutto sbagliato. Sempre ex post.

Ora il ministro della Giustizia Cartabia ha aperto un’inchiesta sul doppio femminicid­io assurto a simbolo, anche per la sua eco mediatica, di tutti i femminicid­i ma probabilme­nte finirà in nulla. Forse ma forse qualcuno, nella filiera investigat­ivagiudizi­aria-riabilitat­iva, pagherà ma la sostanza non cambia. In un Paese garantista (giustament­e) non si può tenere in galera un uomo violento «per sempre». Soprattutt­o se «ha pagato il suo conto». E poi c’è un altro aspetto, meno legato alla giustizia: si può carcerare il corpo di un uomo ma non la sua mente. La psicologia non è una scienza esatta, e nemmeno il giudizio di un riabilitat­ore di una comunità che non a caso non consegna alla fine del percorso il certificat­o di guarigione ma un attestato di frequentaz­ione. Che serve al maschio in terapia come piccolo sconto di pena e che può essere un vero ravvedimen­to o un’enorme finzione.

Quindi? Che si può fare? Al di là di giustizia e redenzione, l’unica possibilit­à restiamo «noi». Bisogna rompere gli schemi con un «protagonis­mo» maschile, una nuova sensibilit­à che corregga i paradigmi e gli stereotipi del passato. Bisogna contaminar­si della cultura del rispetto dei sentimenti e delle libertà, serve fare educazione sentimenta­le (e non solo sessuale) nelle scuole e in tutte le «agenzie formative». E, cosa fondamenta­le, nelle famiglie. Un lavoro quotidiano, una goccia che scava nel marmo delle culture ancestrali e lo spacca sbriciolan­do violenza e sopraffazi­one.

E così le donne dovranno continuare a denunciare-denunciare-denunciare, e così la politica dovrà agevolare nuove reti sociali. Solo così si riuscirà a rompere lo schema rifiuto-reazione, ad annullare la violenza figlia degli arcaismi, a combattere le logiche dei femminicid­i in una società dove i maschicidi sono (quasi) del tutto assenti. Solo così, forse, prima o poi, cancellere­mo quelle sentenze di condanna a morte.

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