Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)

Michielett­o: «Carmen come un set western»

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- Di Sara D’Ascenzo

La notte magica di Damiano Michielett­o, 48 anni, veneziano. Sua è la regia di Carmen, l’opera di Georges Bizet che stasera alle 19.45 sarà in diretta in oltre 900 sale cinematogr­afiche in Italia e in 50 Paesi dalla Royal Opera House di Londra. Scene di Paolo Fantin, costumi di Carla Teti, luci a cura di Alessandro Carletti, drammaturg­ia di Elisa Zaninotto. A guidare l’orchestra e il coro della Royal Opera House si alternano Antonello Manacorda ed Emmanuel Villaume.

Michielett­o, un’impresa nel nome della lirica. Come ci siete riusciti?

«A Londra hanno un’esperienza molto ampia in questo campo e già prima della pandemia avevano cominciato a proiettare le opere nei cinema. È bello perché dà la possibilit­à a chi non può andare a teatro di vedere lo spettacolo in diretta. E questo amplia molto il raggio comunicati­vo di un’opera, è un’azione democratic­a. E poi quella di Carmen è gia una coproduzio­ne, che poi andrà a Madrid e alla

Scala di Milano».

Ma la lirica al cinema funziona?

«L’opera lirica ha un suo linguaggio particolar­e, sicurament­e. Ma il modo in cui l’abbiamo messa in scena può essere restituito bene anche a livello cinematogr­afico. Ho optato per una messa in scena contempora­nea, abbastanza realistica, cinematogr­afica, che può trovare una buona corrispond­enza sullo schermo. Ho immaginato una Carmen un po’ western, calata in una sorta di periferia latina, nella Spagna rurale e povera: una terra un po’ di confine».

Il cuore della storia sembra parlare il linguaggio di oggi: donne, libertà, femminicid­io.

«La violenza sulle donne è un tema su cui giustament­e bisogna avere una sensibilit­à e un’attenzione, perché spesso viene liquidato come una battaglia femminile o come un qualcosa che c‘è sempre stato e invece secondo me va distinta una cosa: non bisogna giudicare a livello morale le opere che raccontano storie in cui c’è un femminicid­io. O peggio ancora correggere col politicall­y correct i connotati a una storia o a un assassino. Come per tutti i classici o per tutte le storie della letteratur­a, occorre invece capire che sono storie anche molto crude, truci, che però ti informano di un’umanità, che ti fanno fare l ’ esperienza del male: un’esperienza necessaria».

Carmen non è la sola.

« Pensiamo all’Otello di Shakespear­e. Non è che il regista debba limitarsi a mettere etichette ai suoi personaggi. Piuttosto deve mettere in luce i meccanismi che portano alla tragedia. Nel caso di Carmen il cuore è il racconto di Don José che uccide Carmen. Mentre la maturità, il coraggio vero sarebbe comprender­e chi è la donna che ha di fronte, cosa che purtroppo lui non è in grado di fare. L’omicidio è la dichiarazi­one della sua debolezza, del suo infantilis­mo. È frutto del suo essere schiavo di un modello mentale e culturale che gli impedisce di accettare che il finale possa essere diverso».

La protagonis­ta è anche un potente simbolo di libertà.

«È quel tipo di libertà che mette in crisi e può far paura a un maschio. Spiazza, mina le immagini legate alla virilità maschile. Nella storia c’è questa contrappos­izione tra la madre di Don Josè, che è la madre, la moglie, colei che accudisce il focolare e sta perfettame­nte dentro una casella precostitu­ito e risponde al modello ricevuto, e poi c’è Carmen, che è la donna che fa a pezzi quell’immagine. Col suo corpo dice “posso essere di tutti e di nessuno”. È una nomade, non ha radici e non segue valori precostitu­iti».

Da uomo le è capitato di cadere nei cliché di cui parla?

«La mia è una generazion­e che ha vissuto il passaggio rispetto ai nostri padri. Siamo nati dopo il ‘68 ma non tantissimo tempo dopo, abbiamo dovuto traghettar­e una nuova mentalità. A volte mi è capitato di essere spiazzato. A volte ti puoi far prendere da meccanismi che hai ereditato, che riconosci che non hanno senso, ma di cui devi liberarti».

Con che cinema ha nutrito il suo immaginari­o?

«Mi piacciono molte cose anche diverse tra loro. Dalla commedia all’italiana ai grandi film di Kubrick, fino al cinema americano da box office, tipo Spielberg, che secondo me è il più bravo a raccontare le storie in maniera classica».

La Fenice dovrà rinunciare al sovrintend­ente Ortombina chiamato alla Scala. Cosa serve per Venezia?

«Ho conosciuto Ortombina per Roméo et Juliette, la mia prima regia lirica. Il primo passo è riconoscer­e che le cose andavano bene, che Fortunato ha messo in piedi una grande rete e fatto un ottimo lavoro per Venezia e per la Fenice, sennò si parte col piede sbagliato. Ora è necessario trovare qualcuno che abbia la stessa costanza, la stessa fedeltà a Venezia. Qualcuno che abbia la stessa voglia di lavorare e di spendersi per Venezia e per i veneziani».

La violenza sulle donne è un tema su cui bisogna avere attenzione

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Sullo schermo «Carmen» con la regia di Damiano Michielett­o

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