Corriere del Veneto (Vicenza e Bassano)
Gli «schiavi di Hitler» figli di un dio minore
Può invece destare più di una perplessità la scelta del meccanismo che è stato offerto agli interessati per ottenere il risarcimento dei danni subiti dai loro avi: non già una pratica amministrativa ma un vero e proprio giudizio. Essa ha comportato la conseguenza, un po’ paradossale, di costringere dei cittadini a fare causa al proprio Stato per ottenere il ristoro dei danni provocati dai militari di uno stato straniero, esponendoli ai tempi e ai costi di un giudizio e aggravando, al contempo, la condizione di già seria sofferenza della giustizia civile italiana (si consideri che in ogni tribunale capoluogo di regione è pendente un analogo contenzioso).
Occorre anche considerare che la strada per quanti, all’esito di questi giudizi, dovessero ottenere una sentenza favorevole appare oltremodo tortuosa e incerta poiché non sono state ancora definite né la procedura di accesso al Fondo né le modalità di erogazione degli importi agli aventi diritto sebbene il decreto aiuti avesse demandato la individuazione di tali aspetti ad un decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, di concerto con il Ministro degli affari esteri e della cooperazione internazionale e con il Ministro della giustizia, da emanare non oltre centottanta giorni dalla data di entrata in vigore del medesimo decreto.
Non va poi trascurato che la scelta del decreto aiuti ha impegnato anche le risorse di un’altra struttura statale, l’avvocatura dello Stato, anch’essa già notevolmente oberata, che di solito interviene in questi processi svolgendo per di più una strenua difesa con la quale contesta tutti i presupposti, giuridici e di fatto, delle richieste degli attori, anche quelli pacifici.
Ed è forse questo l’aspetto della intera vicenda che maggiormente stupisce e rattrista pure. Sia chiaro che non si vuole negare il diritto di una parte, quale è nel caso di specie lo Stato italiano, a svolgere la difesa più ampia possibile ma quello che si fa fatica ad accettare è che tale difesa si possa spingere fino al punto di richiedere la prova specifica che il singolo militare italiano deportato fosse stato assoggettato a lavori forzati.
E’ infatti un fatto assodato da tempo, riportato in numerosi libri di storia ed anche in alcune sentenze, che tutti i militari italiani che furono catturati dopo l’8 settembre e che rifiutarono di aderire alla Repubblica sociale italiana non furono trattati come prigionieri di guerra ma furono trasformati dai nazisti in forza lavoro coatta, subendo violenze e vessazioni di ogni tipo per essere liberati solo dagli alleati.
Misconoscere tutto ciò, sia pure nell’ambito dell’esercizio del diritto di difesa, offende la memoria di quanti, gli I.M.I (militari italiani internati), per troppo tempo sono stati volutamente dimenticati, perché, come osservato da altri, “scomodi per chiunque”, sebbene avessero attuato una forma di resistenza, silente ma quanto mai tenace, al nazismo e al fascismo.
E sorprende, ancor di più, che ora questa amnesia la dimostri il paese al quale essi resero quell’eroico servizio