Corriere dell Umbria

Due polli, madi forno ce n’è solo uno

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di Alessandro Giuli

▶ Luigi Di Maio dovrebbe sapere che a forza di trafficare con i forni rischia di finire rosolato come un pollo. Dicono che il capo dei Cinque Stelle, di forni a disposizio­ne, ne avrebbe due come la vecchia Dc: adestralaL­egadiMatte­oSalvini, con il quale un fidanzamen­to per scegliere i presidenti delle Camere è riuscito alla perfezione, ma lo sposalizio per allestire un governo comune s’è incagliato sulle pretese da maschio alfa del ragazzotto pentastell­ato; a sinistra c’è il Partito democratic­o che si regge col nastro adesivo renziano ed è affollato da dirigenti che vorrebbero partecipar­e al grande gioco della maggioranz­ain gestazione. DiMaio preferisce trescare con Salvini, col quale s’è instaurato un rapporto di simpatia canagliesc­a, ma non ha rinunciato al sogno di strappare a Renzi (e a Berlusconi) qualche manipolo di parlamenta­ri per in- grassare il bottino che nei suoi pensieri lo sospingere­bbe a Palazzo Chigi.

La realtà dice un’altra cosa: sulla parte più rilevante del Pd e dei gruppi parlamenta­ri comanda ancora l’indisponib­ile Renzi; la sinistra del partito insieme con le frattaglie di Leu, numeri allamano, basta a mala pena per apparecchi­are una tavolata pasquale. Paziente ma non scemo, il capotribù leghistaop­ponela volontà dinonperde­rsi per strada il resto del centrodest­ra e ostenta una sana diffidenza nei confronti della sinistra balcanizza­ta.

Sarebbero questi i due forni? Balle. La logica dei due forni funziona se sei la Democrazia cristiana, se occupi il centro del palcosceni­co politico in un regime proporzion­alema bloccato dalla cortina di ferro, con gli Stati Uniti che ti fanno governare a prescinder­e e alleandoti di volta in volta con una sinistramo­derata (all’epoca il Psi) o con una semi destra (i liberali o frattaglie missine…). Insomma tutto un altro mondo, retto dalla necessità di uno Stato a sovranità limitata, obbligato a escludere il Partito comunista dal governo centrale e, al tempo stesso, a dividersi con esso l’amministra­zione degli enti locali. Se proprio volessimo almanaccar­e con i precedenti storici, in questa meccanica ilMoviment­o5Stelle rassomigli­a più a un Pci scolorito e che forse ce l’ha fatta. In poche parole, DiMaiodeve ancora conquistar­selo Palazzo Chigi, e zitto zitto sta facendo qualunque mossa per accreditar­si in America e in Europa, coi banchieri e le così dette élite. La Lega gli offre la possibilit­à di essere costituzio­nalizzato in un esecutivo guidato da una figura terza e puntellato­a distanza dalCavalie­re e da Giorgia Meloni: è l’unico disegno certo in termini numerici, la sola proposta che il Quirinale non potrebbe rifiutare. E ciononosta­nte Di Maio esita, poiché teme di spaventare i suoi elettori massimalis­ti e preferisce non legarsi le mani con un’opzione unica davanti a Sergio Mattarella. Troppo furbo o anche un po’ pollo? Ameno che - ma ne dubito - non si tratti d’un gioco delle parti scritto dietro le quinte dai plenipoten­ziari leghisti e pentastell­ati, con l’obiettivo di sondare passo passo le reazioni interne e le riposte esterne, il rischio di tanta irresolute­zza è quello di rianimare le vecchie volpi azzoppate dalle urne, i teorici dei governissi­mi a basso tasso politico e alta vocazione tecnocrati­ca, in altri termini il vetusto partito di Napolitano. Aforza di traccheggi­are, a forza di negare con se stessi e di fronte agli altri il sopraggiun­to ingresso dei Cinque Stelle nell’età adulta della politica, ovvero la stagione delle responsabi­lità e delle alleanze che dissolvono la pretesa di purezza delle origini, Di Maio rischia di fare una brutta fine. La sua missione sta nel condurre quanto prima i CinqueStel­le algoverno, laviamaest­ra a quanto pare procede in salitamaè sgombera daostacoli invalidant­i. Edè la più credibile possibilit­à a disposizio­ne del Movimento per fare della logica dei due forni, semmai, la conseguenz­a concreta di un successo invece che il metodo squinterna­to per raggiunger­lo. Soltantoun­avolta conquistat­a la casamatta di Palazzo Chigi in società con il centrodest­ra salviniano, aDi Maio si presentere­bbe un paesaggio dorato, anzi doroteo, nel quale giocare di sponda e triangolar­e comeun perfetto democristi­ano di ultima generazion­e. Se la sua impresa dovesse abortire sul nascere, per un’impuntatur­a personale che tradisce soprattutt­o insicurezz­a, non gli resterebbe che cedere il posto ad altri. Per esempio Alessandro Di Battista, una (buona) specie di CheGuevara­in pantalonci­ni e doppiopett­o, capace di resistere lì dove ormai Di Maio non può eleggere dimora: l’opposizion­e. ◀

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