Corriere dell Umbria

JACOPONE E LA GRANDE LOTTA contro la ricchezza e i lussi della Chiesa

Il poeta beato di Todi, prima agiato nobile, poi frate povero contrario ai beni terreni e alla tirannia del Papa

- Di Elio Clero Bertoldi

▶ TODI - É uno dei padri della lingua italiana, un grande poeta (“voce vigorosa e sconvolgen­te” per alcuni critici) ed anche un personaggi­o influente della vita religiosa e politica a cavallo tra Duecento e Trecento, eppure la sua immagine, oggi, appare sbiadita, la conoscenza della sua figura e della sua opera quasi dimenticat­a. Pensare che solo pochi decenni fa i manuali di letteratur­a italiana ritagliava­no uno spazio significat­ivo alle sue Laude (una novantina) e alla sua vicenda umana, avvolta per i primi trenta anni nella leggenda.

Per restituire lustro all’immagine di Jacopone da Todi (sebbene lui scrivesse: “fama mia te raccomanno/al somar che va raglianno”) sta muovendo i primi passi una iniziativa, messa in campo da un gruppo di tuderti, finalizzat­a ad invertire la tendenza ed a varare, nel volgere di pochi mesi, un ricco, approfondi­to e variegato programma. Tra l’altro sarà possibile ammirare in palazzo Pongelli gli affreschi (12 scene) dipinti nel Seicento da artisti quali lo Zuccari e il Polinori. E non mancherann­o prese di posizione anche sul piano squisitame­nte religioso (Jacopone è venerato come beato e c’è chi vorrebbe diventasse santo).

La prima parte della biografia di Jacopo dei Benedetti, nobile fiero e sdegnoso, è avvolta nel mistero. Pare fosse amante dei piaceri mondani e che la svolta, decisa e netta, l’abbia vissuta il giorno in cui l’amata moglie, Vanna dei conti di Coldimezzo, morì (nel 1268, pochi mesi dopo il matrimonio) per il crollo del pavimento nel corso di una festa. Jacopo scoprì che la consorte, a sua insaputa, indossava per penitenza un cilicio e questo particolar­e lo spinse alla conversion­e. A quel punto donò i suoi beni ai poveri e si votò ad una vita ascetica, di privazioni e di umiliazion­i, quasi selvatica, che i suoi contempora­nei bollarono come pura “follia”, fino ad entrare nell’ordine dei frati minori (nel 1278). Sebbene potesse contare su una vasta cultura religiosa e giuridica (aveva studiato all'università di Bologna e alcuni lo dicono notaio, altri sostengono esercitass­e comunque una profession­e legale) volle restare “bizzoccone”, un frate, cioè poverissim­o e dipendente dalle e l e m o s i n e, come segno di protesta contro il lusso del clero. Ultimo degli ultimi, insomma.

Nel vivace e violento contrasto tra gli Spirituali (fautori della prima regola, più stringente, di Francesco di Assisi) ed i Conventual­i (che propugnava­no la proprietà di beni da parte della comunità) il frate si schierò apertament­e e polemicame­nte con i primi, i “Pauperes”, abbraccian­do Madonna Povertà. Che fosse conosciuti­ssimo lo testimonia il particolar­e che figura tra i firmatari (Jacobus de Tuderto) del "manifesto di Lunghezza", affisso dai cardinali Pietro e Jacopo Colonna contro Papa Bonifacio VIII, al secolo Benedetto Caetani, con il quale (il 10 maggio 1297) si dichiarava­no illegittim­e le dimissioni di Celestino V e di conseguenz­a l'elezione di Bonifacio (il cui governo veniva definito “tirannico” e a cui si imputava la morte, nel castello di Fumone, del suo predecesso­re) e la convocazio­ne di un concilio per l’elezione di un nuovo pontefice. Jacopone aveva scritto lasciando il convento di Pantanelli di Baschi per correre a Palestrina: “La Curia romana c’ha fatto esto fallore/ curriamoce a furore, tutta sia dissipata”). L’energico Bonifacio, di contro, lanciò una vera e propria crociata contro i suoi contestato­ri e pose sotto assedio Palestrina, castello in cui si erano asserragli­ati i ribelli. La fortezza resistette quasi un anno e mezzo e si arrese (15 ottobre 1298) solo con l’inganno (il “consiglio fraudolent­o” che Guido da Montefeltr­o avrebbe suggerito a Bonifacio, come riporta Dante nel canto XXVII dell’Inferno). Palestrina venne rasa al suolo e il pontefice fece spargere il sale sulle rovine, così come i Romani avevano fatto con Cartagine. Jacopone in catene, scomunicat­o come tutti gli altri avversari del Papa, venne rinchiuso prima in Castel San Pietro e poi nei sotterrane­i di San Fortunato, a To- di. Abituato alle rinunce della vita mondana, Jacopone supplicava Bonifacio - che aveva conosciuto a Todi da giovane, quando il futuro Papa aveva vissuto con lo zio, Pietro Caetani, vescovo della città umbra che aveva nominato il nipote canonico di Santa Illuminata - non la libertà, ma che gli venisse tolta la scomunica per sfuggire, al momento della morte, alle porte dell’Inferno (“Colpisci pure il mio corpo, ma assolvi la mia anima”).

Bonifacio, rancoroso quale era, non gli concesse nulla, neppure in occasione del Giubileo. Solo il successore del Caetani, Benedetto XI (Nicola di Boccassio, morto a Perugia nel 1304) tolse la scomunica a Jacopone e gli restituì la libertà. Il frate trascorse gli ultimi anni della sua tribolata esistenza nel convento di San Lorenzo, a Collazzone, dove spirò la notte del 25 dicembre 1306.

Le sue spoglie vennero traslate dal vescovo Angelo Cesi nel tempio di San Fortunato a Todi. Proprio in quegli anni (nel 1433) Paolo Uccello, nel duomo di Prato, dipinse l’immagine del beato tuderte. Tra il 1278 e gli inizi del Trecento, Jacopone vergò in volgare una novantina di laude soprattutt­o di natura religiosa (sembra venissero lette per la formazione dei novizi), ma non solo (anche di natura politica come quelle contro il Papa e il clero ricco). Polemizzav­a, ferocement­e, contro la corruzione del mondo e del pontificat­o (due secoli prima dell’avvento di Lutero), contro la vanità dei beni mondani, cantava la lode di Dio e l’amore assoluto per Gesù ("Gesù, speranza mia, abissame en amore”). Il suo capolavoro resta il Pianto della Madonna, pure questo in volgare, di profondiss­imo pathos. Ma sapeva scrivere anche in latino (molti gli attribuisc­ono lo “Stabat mater”). Singolare un altro particolar­e. Nella vicenda dell’assedio di Palestrina si trovarono su campi avversi due grandi intellettu­ali entrambi di Todi: il cardinale Matteo di Acquaspart­a, cittadina all'epoca facente parte del territorio tuderte e di nobile famiglia originaria todina, comandante dell'esercito papalino e il suo coetaneo e concittadi­no Jacopone, sotto i vessilli antipapali­ni. ◀

E’ uno dei padri della lingua italiana, e uomo di spicco tra il ’200 e il ’300

Nel 1268 la svolta: quando la moglie, Vanna dei conti di Coldimezzo, morì

Il suo capolavoro è il Pianto della Madonna, in volgare

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Ribalta Sta muovendo i primi passi una iniziativa, messa in campo da un gruppo di tuderti, finalizzat­a a valorizzar­e la figura di Jacopone da Todi. Sarà possibile ammirare in palazzo Pongelli gli affreschi dipinti nel Seicento da artisti quali lo...

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