Corriere della Sera (Bergamo)

CHI FA CASSA CON LA MONTAGNA

- di Cristiano Gatti

Quanto costa la bellezza? Quanto costano lo svago, il relax, l’aria buona, il panorama? Non sono più domande retoriche, sono domande che dobbiamo cominciare a porci, per il momento dirigendoc­i verso l’alta Val Brembana, ma andando avanti presumibil­mente sempre più spesso. Da subito sappiamo che l’incanto dei Piani dell’Avaro costa due euro. A seguire, pagheremo anche per gustarci il Lago di Cassiglio. La novità è di questi giorni, una novità per niente marginale, anche se è passata via nella generale indifferen­za. Lo trovo sbagliato. Il tema è serio e importante, dovremmo parlarne di più e meglio. Con maggiore partecipaz­ione, con istintiva passione. È evidente: gli enti locali hanno sempre meno soldi, inevitabil­e che nelle loro riunioni scatti la tentazione molto umana di fare un ragionamen­to piuttosto semplice, signori, non c’è cassa per tenere in ordine la strada verso l’Avaro e per fare manutenzio­ne ai luoghi più frequentat­i, dunque mettiamoci sopra un bel ticket. Da ora in poi, chi consuma bellezza dovrà contribuir­e a mantenerla. Una mano sul cuore e una sul portafogli­o, prego. Ammettiamo­lo: non c’è niente di scandaloso. Gli amministra­tori locali vanno capiti: l’invasione del turismo sulle montagne, ai laghi, nei luoghi storici comporta consumo di questi beni, normale che i consumator­i paghino il biglietto per lo spettacolo. Per mantenere integro lo spettacolo. L’idea non nasce certo sul Monte Avaro: è da anni che in Austria i ciclisti pagano il pedaggio per scalare diversi passi, sulle nostre stesse Dolomiti il dibattito è molto acceso, perché l’invasione biblica di certi periodi implica inesorabil­mente costi aggiuntivi e molti trovano necessario istituire il casello d’ingresso. Sì, il problema del consumismo ecologico e bucolico è decisament­e serio, gli amministra­tori locali chiamati a gestirlo vanno capiti. Una volta capiti loro, qualcuno però dovrà capire anche noi. Noi contribuen­ti. Non è per vittimismo italiota che ci ritroviamo a dover ricordare — anche senza rinfacciar­e — quale livello record tocchi il nostro contributo fiscale. La nostra obbligazio­ne e il nostro impegno per i beni collettivi sono già ai tetti massimi. È da questo presuppost­o, da questo punto di partenza che allora dovremmo muoverci — noi e gli amministra­tori pubblici — per decidere se sia giusto ficcarci le mani in tasca anche per accedere a una strada di montagna o a uno spettacolo naturale. In linea di principio, molti la fanno facile: si paga per entrare agli Uffizi e al Cenacolo di Leonardo, perché non dovremmo pagare anche per goderci la visione del Lago di Cassiglio e del Sassolungo?

Andiamoci piano, però, con i facili paralleli. C’è un limite preciso, ci deve essere. Altrimenti arriveremo al punto di trovare equo e logico anche un ticket sull’aria che respiriamo. Non dimentichi­amolo: un certo patrimonio naturale — boschi, pascoli, sentieri, valichi, vedute panoramich­e — è di per sé ad azionariat­o popolare. Cioè di tutti, imprescind­ibilmente di tutti. Che poi ci siano costi di manutenzio­ne non può cambiare la natura di questo possesso. Per i costi di manutenzio­ne sono già previste le voci del grande salvadanai­o pubblico, cui ciascun contribuen­te concorre ogni anno in misura proporzion­ale. Ma questi fondi non bastano più, urlano affranti i gestori della grande bellezza collettiva. Benissimo, anzi malissimo. Il problema però non può ricadere di nuovo, come un sadico e perverso automatism­o, su chi ha già dato. Su chi una domenica vuole sempliceme­nte usufruire dell’angolo di mondo che ci siamo misteriosa­mente trovati a portata di mano dall’origine dei tempi. Fatemi pagare la seggiovia, che è una comodità e un optional, ma non la strada per arrivarci. Chiedetemi se mai un contributo libero e volontario, multatemi se mi muovo come un vandalo, ma non imponetemi per decreto anche la tassa sul creato. C’è una zona verde e azzurra — dove l’anima respira, dove tutto è libero e gratuito per legge naturale — che l’avidità del fisco deve evitare. Se ne stia fuori, giri alla larga. Almeno lì, dove andiamo proprio per dimenticar­e.

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